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Tulpa - Perdizioni mortali - Recensione

Prosegue male l'amore post-moderno per l'horror italiano anni '70 di Federico Zampaglione. Buona l'idea di incrociare pseudo misticismo tibetano e pecoreccia smania assassina, ma l'eccessiva dose di filologica ignoranza richiesta dal genere, annega ogni interesse ('zinne' della compagna comprese)

Lo Zampa è un simpatico, va detto. Benché figlio di preside filosofo (nonché co-autore dei testi dei Tiromancino), ha una sincera passione borgatara per i B-movie all'italiana, si esprime come Monnezza e c'ha pure la moje 'bbona', un po' come Luciano Martino con l'indimenticabile Edwige Fenech.
Dopo il discreto successo, soprattutto all'estero, di Shadow, datato 2009, il regista romano ci riprova con Tulpa - Perdizioni mortali, un giallo-horror chiaramente ispirato ai lavori dei prolifici registi italiani degli anni '70, oggi riconosciuti Maestri: Lucio Fulci, Mario e Lamberto Bava, Sergio Martino e, ovviamente, il sommo Dario Argento.
Il soggetto, scritto dal veterano Dardano Sacchetti (quello de Il gatto a nove code e Demons, tra gli altri), vede come protagonista una donna manager, Lisa (Claudia Gerini), che di notte cerca un'improbabile Illuminazione, attraverso un processo di liberazione di un proprio doppio mentale (Tulpa), a base di incontri sessuali con sconosciuti\e. Le orge si svolgono in un club privato gestito da un inquietante Maestro tibetano che funge da cerimoniere e che somministra massime esoteriche insieme a gocce psichedeliche. Un misterioso assassino inizia a giustiziare ritualmente tutti i promiscui frequentatori del locale. Riuscirà la bella Lisa a salvarsi?
A dire il vero, il motivo di maggiore interesse per Lisa non è la sua sorte. Ed è un peccato. Raramente le nozze tra Eros e Thanatos hanno generato un figlio così noioso. La sceneggiatura è una mera alternanza di scene riempitive (gli imbarazzanti siparietti delle riunioni aziendali) e omicidi. Non ci sono indizi, finti colpevoli, colpi di scena. La polizia compare solo al termine del film. L'attenzione, diciamo così, si desta solo per le sequenze in cui la Gerini esibisce le sue nudità, pur se in un'iconica castità da vecchia censura democristiana, e per le scene delittuose, sempre ben curate esteticamente come vuole la tradizione.
Zampaglione desidera a tutti i costi restare il più fedele possibile ai modelli. Teme che, nobilitando la scrittura con un maggiore rigore, si possa perdere quel gusto un po' artigianale e cialtrone che permetteva di sorridere e spaventarsi contemporaneamente davanti a pellicole come Lo strano vizio della signora Wardh o Spasmo, tra le tante. Riproduce lo sciatto con manierismo post-moderno, ma tradisce il fondamento stesso del genere che è, prima di tutto, il divertire.

Risultato: un fastidioso senso di cerebrale artificio, un po' come la sovrabbondante musica post-progressive (anch'essa a gestione famigliare) che ammorba l'intero film.

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