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Miele

Un personaggio femminile sicuramente molto diverso dai soliti: Valeria Golino, nelle vesti inedite di regista, descrive la triste realtà dei malati all’ultimo stadio attraverso un film intenso e dall’approccio non pietistico


Irene (Jasmine Trinca) è una trentenne che dopo la morte della madre decide di aiutare i malati terminali a mettere fine alle loro sofferenze attraverso l’utilizzo di barbiturici vietati in Italia. Il suo è un vero e proprio mestiere, per il quale riceve regolare retribuzione e che quindi prevede delle regole: mai utilizzare verbi al futuro con i malati che si affidano a lei, mai lasciare che assumano da soli il veleno senza assistenza da parte sua. Un lavoro molto pesante, in cui non ci si può permettere di sbagliare e in cui bisogna essere quasi invisibili. Forse è per questo che Valeria Golino, in un soddisfacente esordio dietro alla macchina da presa, mostra di continuo la protagonista riflessa attraverso un vetro.
Le morti assistite non vengono mai mostrate, la scena si ferma sempre prima, forse proprio per dimostrare una sorta di rispetto verso l’intimità di quel momento. E di rispetto si parla, infatti, quando Irene (il cui nome in codice è appunto Miele) spiega perché ha deciso di fare questo lavoro: quando una grave malattia avanza, si continua a stare al mondo, ma quella che resta non può essere più considerata vita. Così si apre un lungo confronto con il personaggio dell’ingegnere, interpretato da Carlo Cecchi, che invece vorrebbe farla finita semplicemente perché stanco di vivere, perché ormai nulla gli dà più stimoli. Irene, invece, cerca la vita in ogni momento e in ogni modo: nuota, va in discoteca, si aggrappa a un amore impossibile per un uomo sposato (Vinicio Marchioni) che non lascerà mai la moglie. Il personaggio di Cecchi sarà come un detonatore nella triste routine di Irene e la porterà a porsi tante altre difficili domande.

Non consigliato per chi si aspetta un happy ending, Miele tocca delle corde molto delicate, ma lo fa con garbo e senza scadere quasi mai nel banale.

 

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