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Holy Motors (Torino Film Festival 2012 - XXX)

Quando più che il viaggio contano il punto di partenza e quello di arrivo. Dopo più di un decennio di quasi silenzio, Leos Carax torna al cinema e gli/ci regala il suo punto di vista sullo stato delle cose, dentro e fuori la settima arte. In bilico sulla nostalgia e in punta di sguardo verso un futuro fumoso, ecco dove siamo, nel 2012 cinematografico-visivo

C’è chi dice che, quando sei in viaggio, non è la meta che conta, e a pensarci bene per costoro probabilmente nemmeno il punto di partenza, ma è il percorso l'essenza del tutto, il viaggio stesso, la sua esperienza, la sua interiorizzazione in chi lo sta compiendo. Beh, chi scrive non è tra questi; non che il percorso, le sue curve e i rettilinei, le sue fermate, le sue salite e successive discese, non affascini e interessi, intendiamoci... ma a dire la verità trovo che molto del senso del muoversi, dello spostarsi da un punto all’altro in uno spazio-tempo (magari bagnato di emotività), stia proprio nei due punti di arrivo e di partenza che del viaggio, della sua dinamica, sono gli estremi: le situazioni di equilibrio, evidentemente instabile dacché origine e termine provvisorio di un cambiamento di stato, che costituiscono le tappe di un percorso (meta)fisico dentro il soggetto (sempiternamente)viaggiante.
Holy Motors (presentato nella sezione Torino XXX del Torino Film Festival 2012), figlio di un silenzio durato quasi ininterrottamente per più di un decennio, è un film sicuramente fatto di/da un viaggio, dentro (quello del suo protagonista-istrione Oscar nel ventre di Parigi, a bordo di una lucida limousine) e fuori (quello di Leos Carax da Pola X fino a qui) lo schermo, ma come si diceva poco fa, quello che interessa qui non è il tragitto tra due punti, quanto piuttosto i due punti estremi: incipit e conclusione, che chiudono da parentesi l’odissea contemporanea di un uomo di cinema e del suo attore (Denis Lavant, ancora una volta). E di questo si parlerà.
All'inizio è l’incipit, con lo stesso Carax ospite di una camera d’albergo affacciata sulla pista di un aeroporto, sperduto e metafisicizzato, che nella tappezzeria murale di morbida foresta trova una porta che lo affaccia sulla galleria di una sala cinematografica, in cui un film di navi fischianti tiene incollati gli occhi di tanti spettatori allo schermo: il regista ci guarda, ci spia, come fossimo (noi pubblico) allo zoo, animaletti carini e incomprensibili.
Alla fine è la conclusione, che qui non va estesa apertamente pena la (auto)scomunica di chi batte sui tasti: è in un deposito di macchine, un deposito di ferri del mestiere, di strumenti che l’uomo usa e getta, grezzi nella loro meccanica tutto sommato elementare, ma non meno 'vivi', e riprende il tema dell’incipit, ovvero un punto di vista diverso sull’uomo-spettatore, stavolta non da parte del regista-autore ma da parte delle cose, che regala una scintilla e il forte sospetto (all'uscita) che forse anche le sedie della sala dove si era seduti sino a poco prima la fine di Holy Motors, possano giudicare noi spettatori, secondo loro canoni, noi che ci siamo contorti, addormentati, toccaciati, distratti, durante la seduta appena terminata.
Nel mezzo è il viaggio, nel mezzo è il delirio, nel mezzo è la prova per lo spettatore: l’esperimento di visione cui siamo stati sottoposti, dichiarato e contumace, che lascia a bocca aperta e non molla la presa per quasi tutto il tempo; un serissimo divertissement da godere senza filtro, fatto di intermezzi appena collegati tra loro, ma sempre di grande bellezza visiva e finezza intellettuale, a cui perdoni di non essere incasellabile (perché tu spettatore vorresti sempre incasellare, controllare, definire, criticare, ma non si può, non si deve) come capolavoro, ma del quale finisci a rimuginare i siparietti per i giorni seguenti. Godi a cervello semispento, e tanto basta.

Eppure a cervello ben acceso (e lo dimostrano appunto incipit e chiusura) c’è quello che questo film-esperimento lo ha ideato, sognato, visto mentre in stato di delirio psichedelico forse, e che ora ci guarda. E (come noi davanti al viaggio del suo protagonista) non capisce che pensiamo, perché lo pensiamo e poco dopo si scorda anche della domanda cui non riusciva a rispondere. Attenzione a non girarsi indietro però, perché potreste vederlo là, mentre vi osserva dalla galleria della sala, ritto in piedi con un pigiama a righe; ma sarebbe l’ultima cosa che fate da spettatore. Orfeo ed Euridice insegnano. Meglio non sapere, tutti e due (osservante e osservati). Al massimo, far finta di nulla.

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