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Hard to be a God - Recensione (Festival di Roma 2013 - Fuori concorso)

L’opera postuma del cineasta russo Aleksej Jurevic German, premio alla carriera al Festival del Film di Roma 2013, annichilisce lo sguardo dello spettatore con un apologo sull’uomo e sulle dinamiche del potere, ambientato in un inferno dei vivi fatto di fango, lerciume, fatiscenza. Opera ostica per tempi e modi di messa in scena ma che resta impressa sulla retina

Era da tredici anni che Hard to be a God (Trudno byt’ bogom) aspettava di vedere la luce. Tanto ha impiegato Aleksej German, cineasta russo che ha diretto solo sei lungometraggi in quasi cinquant’anni di carriera cinematografica, per girare quello che rappresenta l’ultimo atto di una filmografia che ha avuto difficoltà a circolare nei circuiti tradizionali (in parte per problemi di censura ai tempi dell’Unione Sovietica e in parte per l'autorialità estrema del suo cinema non certo adatta a tutti). German è deceduto lo scorso febbraio, quando ancora il montaggio del film non era stato completato. Grazie al figlio Aleksej German Jr. e alla compagna di vita Svetlana Larmalita, è stato possibile ultimare il film in tempo per farlo proiettare al Festival del Film di Roma 2013, che per l’occasione ha reso omaggio al regista scomparso con un premio alla carriera.
Hard to be a God è quello che potremmo definire un kolossal atipico per gli standard odierni, dove il gigantismo degli scenari degni di produzioni hollywoodiane è in funzione di una messa in scena che rinuncia a qualsiasi convenzione cinematografica in favore di una personalissima riflessione sull’uomo. Il nostro sguardo viene catapultato in un pianeta dal nome Arkanar, molto simile alla Terra con la sola particolarità che il tempo e il progresso sembrano essersi fermati al Medioevo: le persone vivono in una sorta di stato brado in ambienti che definire fatiscenti è un eufemismo. Arkanar è un inferno dei vivi popolato da individui dall’aspetto rivoltante che compiono azioni spregevoli in una terra che pulsa fango, lerciume di ogni tipo e odori nauseabondi. Come se non bastasse, pioggia e nebbia sono una presenza costante e rendono ancora più difficili le condizioni di vita. Nella moltitudine di personaggi che si alternano davanti alla macchina da presa prendiamo confidenza con la figura di Don Rumata, un nobile temuto, secondo alcuni figlio di un dio pagano, il quale si trova in mezzo a due fuochi: tra chi da una parte vuole imporre un nuovo ‘ordine sociale’ facendo piazza pulita degli intellettuali, considerati un male da estirpare, e chi invece dall’altra parte vuole preservare una società in cui saper scrivere e leggere non rappresenta un crimine.
Il film è tratto da un romanzo fantascientifico di Arkadij e Boris Strugackij pubblicato nel 1964, da cui sono stati già ricavati un lungometraggio e un videogioco. Se il romanzo voleva essere un’allegoria dell’oppressione dei regimi totalitari, il lavoro di German allarga il campo della sua riflessione con un apologo senza tempo sulle dinamiche del potere, al cui centro ci sono l’uomo e le sue varie declinazioni, che qui prendono il nome di colori 'intercambiabili': ci sono i Grigi, i Neri e i Rossi in una lotta che non trova una fine, ma poco cambia, perché, come recita il protagonista, “quando al potere giungono i Grigi, prima o poi arrivano sempre i Neri a spodestarli”. Un interrogativo incombe sul protagonista, come su tutto il film: “Cosa faresti se fossi Dio?”. German, e con lui Don Rumana, sembra dirci che per il declino dell’umanità non c’è una soluzione. Con dialoghi ridotti all’osso, musiche pressoché diegetiche, immagini livide in bianco e nero, il cinema radicale del regista cattura tutta la brutalità di un mondo oscurantista servendosi di lunghi piani sequenza che vivisezionano i corpi deformi dei personaggi e il degrado dei luoghi dell’azione, con un’insistenza che richiede una certa pazienza allo spettatore ma che, al tempo stesso, sa ripagarlo con uno di quegli incubi a occhi aperti che non si dimenticano una volta usciti dalla sala.

Come molti film di pensiero che non accettano compromessi sul piano della messa in scena, Hard to be a God è un’opera che induce chi guarda a contemplare le immagini piuttosto che a farsi coinvolgere dallo sviluppo narrativo degli eventi: tanto sono ricche di suggestioni le prime, quanto sono aridi d’intellegibilità i secondi. Sono pochi i film che possono permettersi di raccontare esclusivamente per immagini. E il film di German, purtroppo, non rientra tra questi. Hard to be a God è semmai uno di quei ‘capolavori incompiuti’, belli ma autoreferenziali, dove l’estro immaginifico è in funzione di un’idea che non si traduce mai in una storia di senso compiuto.

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