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The Zero Theorem - Recensione (Venezia 70 - In concorso)

La nuova pellicola di Terry Gilliam è un viaggio in un mondo estremo con chiari riferimenti al reale. Potrebbe servire come ricetta per i mali del presente, ma difetta in alcuni aspetti

I temi affrontati da The Zero Theorem, nuova fatica dell'immortale Terry Gilliam, sono svariati: ricerca dell'amore, immersione nel proprio io, isolamento nei confronti di un mondo che non valorizza l'uomo, il potere della Rete, di Internet, e quindi della tecnologia da intendersi come una forma di valorizzazione personale, il controllo costante della vita da parte di qualche potere forte. Soprattutto, però, la pellicola parla della volontà dell'uomo di appropriarsi nuovamente della propria esistenza, lontano dalle stimolazioni percettive del quotidiano, nella speranza di cercare la risposta all'interrogativo più importante: qual è il senso della vita?
Questa carrellata di tematiche definiscono il personaggio di Qohen, interpretato da Christoph Waltz, un genietto del computer che parla di sé, utilizzando il plurale maiestatis, perché, come afferma, definisce meglio l'io stesso, in costante attesa di ricevere la telefonata fatidica, ossia quella che potrebbe svelargli il perché si trova al mondo. Dovrebbe restare sempre a casa, però, per cui ottiene dal Management, il grande capo dell'azienda, Matt Damon, il trasferimento alla sua residenza con il compito di risolvere il Teorema Zero. Qohen dovrebbe essere soddisfatto, ma invece è sempre più stressato, dubbioso, fragile e per questo non riesce a risolvere il teorema. Come se non bastasse nella sua vita irrompono Bob (Lucas Hedges), un 15enne, genio programmatore, e una bellissima ragazza bionda, Bainsley (Mélanie Thierry), che con la loro irruenza cercano di portarlo fuori dalle sue angosce.
L'obiettivo di Gilliam è proporre una radiografia dei mali che turbano l'uomo contemporaneo e offrigli la risposta alle sue angosce attraverso la fuga dalla realtà, per costruirsene una propria, ideale e concreta, in un'altra dimensione spaziale e temporale.
L'impianto teorico si percepisce, ma risulta sovrastato da due elementi. Innanzitutto il piano visivo. È imponente, colorato, troppo fantasioso nell'uso di accesi colori fluo: è un universo indipendente lontano anche dalla visione di sogno più estrema, che rappresenta una cornice invasiva in cui si incastra con difficoltà il dramma del personaggio. Il suo cambiamento, la sua catarsi, infatti, si compie, ma non emerge. Qohen attraversa un processo evolutivo non percepibile. Ciò è anche dovuto al fatto che le sue psicosi, i tuoi tormenti, lo rendono una caricatura, più che un uomo, a causa della convinzione con cui si trincera nel suo isolamento. Soprattutto appare molto distante dalla follia dei co-protagonisti. Insomma due estremi incompatibili.

The Zero Theorem
, quindi, è una favola per il presente che si perde per la voglia di Gilliam di essere eccessivamente visionario.

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