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The Ditch

Immagine da The DitchPrimo, e sinora unico, sconfinamento di Wang Bing nel cinema di finzione, The Ditch è un ritratto doloroso, asciutto e feroce, della condizione umana ai tempi della disumanizzazione storica e politica e sociale delle purghe maoiste

Il lavoro cinematografico di Wang Bing, come si vede in ognuno dei suoi film, è quasi tutto incentrato sulla forma e i tempi del documentario. Eppure, nel suo modo di documentare la realtà c'è sempre quella tensione al racconto, o meglio a registrare un racconto, che può bene assumere i toni della finzione. Così, come l'altro gigante del cinema cinese contemporaneo: Jia Zhangke, anch'egli diviso tra documentario della realtà e descrizione attraverso le immagini di una storia di fiction, anche Wang Bing ha avuto la sua produzione di fantasia in cui ha mostrato che il suo approccio registico può funzionare anche in questo campo, almeno una volta. E questa volta coincide con la Mostra del Cinema di Venezia, dove nel 2010 fu presentato in concorso, a sorpresa, The Ditch. Il film, prodotto con capitali europei e hongkongesi, raccontare la storia di un gruppo di oppositori del partito comunista cinese, costretti nei campi di lavoro nel deserto del Gobi, nella Cina degli anni '60 (un tema toccato già nella biografia di He Fenming, alla storia del marito della quale è ispirato questo film, qualche anno prima). Durissimo, scurissimo, sabbioso e rigoroso, The Ditch è un film di contrasti e di superlativi: i contrasti degli spazi aperti e assolati del deserto, arido e inospitale, con gli interni bui delle baracche sotterranee in cui i prigionieri protagonisti sono rinchiusi; i superlativi dell'eccesso e degli estremi a cui questi prigionieri vengono sottoposti, nel lavoro estenuante, nel freddo inesorabile, nella fame continua e feroce, nell'umiliazione di ogni aspirazione a fare della propria vita qualcosa di più di un continuo obbedire a ordini e regole imposte, dalla società, dal partito. Le sensazioni che trasmette sono fisiche, umane, faticose.
Con le sue due ore e mezza, sembra quasi che Wang Bing si sia stavolta compresso e costretto in tempi da lungometraggio di concorso, e in effetti la storia è molto compatta, grazie soprattutto al mastodontico lavoro di montaggio della belga Marie-Helene Dozo (collaboratrice tra l'altro dei fratelli Dardenne), capace di condensare il doloroso succo qualcosa come 160 ore di girato. Wang ci mette la sua mano ferma, intransigente, incurante di regole commerciali e ammicchi e ammorbidimenti, e come altre volte, funziona; declina per l'ennesima volta il tema della riduzione dell'individuo a numero nella massa, a ingranaggio di un sistema, a topo in trappola, quella visione che gli merita la stima di alcuni che nell'Occidente 'libero e capitalista' amano crogiolarsi in un'idea di superiorità sociale un po' fuori dal tempo (per dire, quelli che definiscono ancora la Cina come Terzo Mondo), mentre in patria – complice soprattutto il fatto che i suoi film non sono usciti al pubblico se non a Hong Kong (e non che Wang abbia mai fatto molto perché uscissero, intendiamoci) – rimane ignorato o giù di là.

Ed è anche per via di questo passare inosservato o quasi in Cina che, dopo aver girato The Ditch senza autorizzazione e fattolo uscire senza il visto della censura (fatto che ha meritato ad altri ban pluriennali dalla regia), Wang non si è fermato e ha continuato a girare, tornando al territorio più familiare del documentario con Three Sisters, di imminente sbarco alla Mostra di Venezia, in questo 2012. Stavolta la tematica presa in camera sarà una Cina rurale che sinora era stata ai margini della poetica di Wang Bing; dopotutto, costituisce ancora circa la metà del paese più popoloso al mondo... cosa volete che sia?

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