Attenzione
  • JUser: :_load: non è stato possibile caricare l'utente con ID: 62

News, recensioni, approfondimenti sul cinema asiatico

Ti trovi qui:HomeCinema e dintorniAsiaIntervista a Jia Zhang-Ke

Intervista a Jia Zhang-Ke

“Il cinema che faccio è la mia percezione del mondo: attraverso le immagini comunico i miei dolori”, ci confessa il regista cinese, ospite dell’Asian Film Festival per presentare la retrospettiva integrale dei suoi film, in una lunga conversazione


Per capire il presente della Cina e del suo cinema non si può prescindere dall’opera di Jia Zhang-Ke, il regista che più e meglio di altri ha pantografato i mutamenti vertiginosi del suo Paese negli ultimi quindici anni ed ha contribuito a ridefinire le coordinate della produzione cinematografica mandarina, portando la macchina da presa laddove la realtà chiedeva di essere raccontata nel suo divenire, anche a costo di suscitare le ire delle autorità comuniste, che non poche volte si sono accanite contro i suoi film, a tal punto da non permetterne la diffusione nei cinema.
Jia è uno dei registi di punta della sesta generazione del cinema cinese, di cui fanno parte i cineasti che si sono diplomati all’Accademia del Cinema di Pechino nel giugno del 1989, quasi in concomitanza con gli avvenimenti tragici di piazza Tienanmen. Oltre a Jia, il gruppo annovera, tra gli altri, Wang Xiaoshuai, Zhang Yuan, Ning Yin, Zhang Ming e Lou Ye. È a loro che si deve un cinema indipendente dalla forte impronta neorealista, nei contenuti come nella forma, nato più per esigenze che per convinzioni artistiche, ma con la ferrea volontà di anteporre l’indagine del tessuto sociale connesso alle persone comuni alla descrizione di realtà mitiche in cui erano specializzati gli esponenti della quinta generazione (ad esempio Zhang Yimou e Chen Kaige).
Cresciuto a Fenyang, Jia ha realizzato il suo primo film nel 1997, Pickpocket, che ha partecipato a numerosi festival internazionali come quelli di Berlino, Pusan e Buenos Aires. Ha poi diretto Platform (2000), presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia e, nello stesso anno, il documentario In Public, vincitore del Gran Premio al Festival di Marsiglia. Ha girato quindi Unknown Pleasures (2002), transitato in concorso al Festival di Cannes, The World (2004) e Still Life (2006), che si è guadagnato il Leone d’oro a Venezia. Nel 2007 ha vinto la sezione Orizzonti nella città lagunare con il documentario Useless e nel 2008 ha presentato, sempre a Venezia, il cortometraggio Cry Me a River.
Pochi giorni fa Jia è arrivato a Roma per partecipare alla settima edizione dell’Asian Film Festival (in programma dal 4 all’11 luglio), la prima kermesse cinematografica che gli ha dedicato una retrospettiva integrale di tutti i suoi film. Durante la manifestazione il regista e documentarista cinese si è messo al servizio del pubblico, parlando dei suoi lavori prima della loro proiezione al cinema Farnese. Al suo fianco c’è stata sempre Zhao Tao, un’attrice che, da Platform a Cry Me a River, non lo ha mai abbandonato, diventando una presenza fissa nei suoi film e forse anche nella sua vita privata.

Jia, tra tutti i lavori che ha realizzato da quando ha iniziato a cimentarsi con il cinema, qual è il film a cui è più affezionato e perché?

Dal 1997, anno in cui ho esordito con Pickpocket, ho fatto film incessantemente, cercando di parlare dell’attualità della Cina e della sua Storia in continuo mutamento. Due temi che sono riuscito a sviluppare bene soprattutto in Platform. È il film a cui tengo di più, quello più personale, perché racconta le esperienze della mia gioventù in un lasso di tempo che va dal 1979 al 1989, una fase di grandi tumulti e cambiamenti per la Cina, un periodo durante il quale il Paese si è aperto all’Occidente, ma si è macchiato delle brutalità dei fatti di piazza Tienanmen, che è stato un evento che ha attirato l’attenzione di molti cinesi. Siccome mostrava gli sconvolgimenti di quell’epoca, Platform ha subito la censura del regime comunista.

Il suo cinema attento ai bradisismi del reale sembra rifarsi alla tradizione del neorealismo italiano, in particolare ai film di Roberto Rossellini.

È vero, c’è un’affinità tra i miei film e quelli del neorealismo italiano, che è stato sempre una fonte di grande ispirazione per me. Ho imparato a conoscere e ad amare tutto ciò che firmava Rossellini quando frequentavo il corso di cinematografia all’università di Pechino, dove i professori facevano studiare a fondo il cinema italiano ed anche quello russo.

Cosa le piaceva di quella corrente cinematografica?

Non c’è un aspetto in particolare. Quello che mi colpiva di più del neorealismo italiano era il modo di rappresentare la realtà cercando di rimanere il più fedele possibile ad essa. Ricordo che ci fu un film che mi impressionò molto: Ladri di biciclette di Vittorio De Sica.

C’è un tipo di cinema che ama guardare da spettatore?

A parte le pellicole di De Sica e Rossellini, non smetto mai di vedere e rivedere le opere di Federico Fellini, Michelangelo Antonioni, Robert Bresson, Yasujiro Ozu e Hou Hsiao-hsien. I loro film mi attraggono per lo stile con cui sono stati girati: hanno la capacità di focalizzarsi su aspetti che altre persone, altri registi, vedrebbero sotto punti di vista differenti.

Da dove nasce la sua voglia di radiografare la Cina?

Credo che sia dovuto al fatto che il periodo in cui ero adolescente è stato ricco di turbamenti per la Cina e questo ha avuto un forte impatto sulla mia vita. Una volta diventato regista, ho voluto dare una forma concreta a quello che avevo visto e vissuto in quegli anni armandomi di macchina da presa.

Come vede il cinema cinese di oggi, sempre più ricco di film ad alto budget che strizzano l’occhio al mercato internazionale e sempre più povero di pellicole indipendenti?

La maggior parte dei film che escono in Cina ricalca i modelli forniti da Hollywood. Tuttavia c’è spazio anche per altro. Infatti il pubblico ha la possibilità di vedere pellicole più personali al di fuori dei circuiti delle sale, spesso attraverso DVD piratati o Internet. Sono soprattutto i giovani ad avvicinarsi a prodotti non mainstream ed a renderli popolari. È capitato con i miei film, visti da numerose persone grazie al mercato dell’Home Video. Tutto questo mi ha reso famoso, ma quello che mi interessa non è la notorietà, bensì la possibilità di raggiungere un pubblico vasto per provocare una reazione riguardo i temi che tratto.

Che opinione si è fatto della mutazione (alcuni hanno parlato di involuzione) di Zhang Yimou, che fino a qualche anno fa era fortemente critico con i suoi film verso il partito comunista ed ora pare aver calato la guardia nei suoi confronti, mettendosi anzi al suo servizio, come è capitato per la cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Pechino?

In realtà Zhang Yimou non ha mai criticato la Cina sul piano politico, piuttosto ha semplicemente affrontato alcuni problemi legati alla cultura del nostro Paese, come ad esempio l’organizzazione patriarcale della società. L’avvicinamento al partito comunista nasce più per volontà del governo, recentemente più propenso ad aprirsi al mondo culturale, che per iniziativa di Zhang. Ormai i tempi sono cambiati: basti pensare che i funzionari che censuravano i film di Zhang non ci sono più e sono stati sostituiti da persone che sono cresciute ammirando i suoi film. Quindi da parte della politica c’è stato un fisiologico ammorbidimento con i registi come lui. L’unico vero cambiamento di Zhang è che non ha più il coraggio di una volta di affrontare tematiche sociali. Cosa che non è successa ad un altro regista della Quinta Generazione, Tian Zhuangzhuang, che è rimasto fedele al suo percorso artistico.

Vincere il Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia ha trasformato la sua vita?

Sono contento di aver conquistato un premio così prestigioso. Nella mia vita privata non ci sono stati cambiamenti, mentre in quella artistica c’è stata una scossa, visto che dal momento in cui ho conquistato il Leone d’oro sono riuscito ad avere maggiore forza e facilità nel dare voce al mio desiderio di raggiungere il pubblico per colpirlo e sensibilizzarlo con i problemi della Cina.

Domanda baziniana: cos’è il cinema per lei?

Il cinema che faccio è la mia percezione del mondo, il risultato delle mie reazioni di fronte ai problemi della gente semplice. Attraverso le immagini comunico il mio dolore per le difficoltà della Cina. Una persona che riceve uno schiaffo può urlare, mentre io giro una scena.

Zhao Tao è la sua attrice feticcio. Come mai?

Perché in lei vedo l’emblema della classica ragazza cinese che è possibile rinvenire in tutti i personaggi femminili dei miei film. Zhao è l’immagine di ciò che cercavo nelle mie protagoniste. Il nostro sodalizio è nato quando l’ho scelta ad un provino in una università per interpretare una ragazza che sapesse ballare e parlare il dialetto shanxi in Platform. Lei era perfetta per la parte, in quanto allora era una insegnante del corpo di ballo.

I suoi film nascono da un’ispirazione o da una progettualità?

Sicuramente prendono vita da un’ispirazione, che però viene fuori sempre da qualcosa che mi ha coinvolto emotivamente.

Intrattiene rapporti con altri registi della Sesta Generazione?

Sì. Noi registi della Sesta Generazione siamo amici perché tutti quanti abbiamo studiato cinema a Pechino. Ci incontriamo spesso per parlare di cinema e discutere dei nostri progetti. Ho un legame stretto soprattutto con Lou Ye e Wang Xiaoshuai.

Sta lavorando ultimamente?

Sto girando un documentario intitolato Shanghai Legend per il Shanghai World Expo 2010. Ma ho in cantiere anche un lungometraggio di finzione. Sarà ambientato nella Shanghai del 1949, durante gli scontri tra i comunisti di Mao Zedong ed i nazionalisti capeggiati da Chiang Kai Shek, e racconterà i tumulti che spinsero molti shanghaiesi a fuggire dalla Cina per andare a Taiwan, ad Hong Kong ed in America.

Quale strada prenderà il suo cinema nei prossimi anni?

Non saprei dirlo con esattezza. Tutti i film che realizzo nascono dalla mia sensibilità di artista. Sono aperto ai cambiamenti, ma dipende dall’ispirazione. Una cosa è certa: se un produttore mi chiedesse di girare un film in un certo modo, non lo farei mai.

In questi giorni il presidente cinese Hu Jintao è a Roma per impegni diplomatici. Se lo incontrasse per strada, cosa gli direbbe?

Lo convincerei ad investire più soldi nella cultura e nel cinema. Se non si danno sostegni alla cultura ed anche al cinema, i problemi di un paese come la Cina non possono che acuirsi. E poi lo inviterei a curare due grandi metastasi che fanno soffrire la Cina: la prima è l’estremo divario tra ricchi e poveri, tra città e campagna, la seconda è invece l’incredibile poca importanza che il popolo cinese dà alla sua Storia per colpa del governo, che vieta di conoscere gli episodi più controversi del passato.

Francesco Siciliano

8 luglio 2009

Lascia un commento

Assicurati di inserire (*) le informazioni necessarie ove indicato.
Codice HTML non è permesso.

Questo sito utilizza cookie per il suo funzionamento. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie. Se vuoi avere maggiori informazioni, leggi la Cookies policy.