Extra festival ed eventi: speciali, interviste e approfondimenti

Ti trovi qui:HomeFestival ed eventiExtra festivalFesta del Cinema di Roma 2018, promossi e bocciati: guida ai film

Festa del Cinema di Roma 2018, promossi e bocciati: guida ai film

In occasione della Festa del Cinema di Roma, ecco i giudizi degli inviati a tutti i film visionati (e anche altro) alla 13esima edizione. Appunti critici di un'avventura dello sguardo lunga 11 giorni






Selezione Ufficiale


7 sconosciuti a El Royale (Bad Times at the El Royale), di Drew Goddard (Stati Uniti)



Come suggerisce il titolo, protagonisti sette (misteriosi) sconosciuti che, in piena era Nixon, incrociano i loro destini a El Royale, un albergo con un passato glorioso e un presente fatto di abbandono e decadenza, al confine tra Nevada e California. Un prete, una cantante soul, un commesso viaggiatore, due ragazze hippie, un santone a capo di una setta di figli dei fiori si ritrovano così al cospetto di un concierge tormentato dalla guerra del Vietnam, l’unico a mantenere in vita l’albergo. Tutti nascondono un segreto. Così come lo nasconde El Royale: un bottino di una rapina andata male, ma anche inconfessabili attività parallele… Drew Goddard rimette mano a quella che è ormai diventata una sua ‘ossessione’ (ricordate il film d’esordio che lo aveva lanciato, Quella casa del bosco?): l’idea di mettere alla prova un gruppo di persone intrappolate in spazi fisici e temporali delimitati. Se il film di sei anni fa aveva rappresentato un gradevole esperimento horror, questo 7 sconosciuti a El Royale sconta più di un difetto che lo rende un lavoro riuscito a metà, a cominciare dal debito nei confronti di tanto cinema di Quentin Tarantino (dai dialoghi, alla suddivisione narrativa alla nostalgia per la pellicola e il formato anamorfico), in particolare a The Hateful Eight. La prima parte procede bene, con personaggi e situazioni che fanno crescere la suspense in una cornice da thriller ad effetto sorpresa in cui ci si chiede con gusto “ma come andrà a finire?”. Purtroppo la risposta al quesito arriva troppo tardi (eccessive le quasi due ore e mezza di durata della pellicola) e non è completamente all’altezza delle ambizioni: le storie dei singoli personaggi disperdono il loro potenziale in una pantomima di menzogne un po’ banali (fuori luogo il riferimento alla guerra al Vietnam) e la messa in scena è fin troppo teatrale. Il film è un juke-box (come la sua colonna sonora che alterna le hit dell'epoca) che sfrutta bene i meccanismi ad orologeria del cinema thriller nella sua sequela di sospetti disseminati lungo il racconto, ma la voglia di andare oltre, di raccontare un’America nel passaggio dai Sessanta ai Settanta, dal Sogno Americano alla perdita dell’innocenza, è un tantino pretestuoso. (Francesco Siciliano)

Halloween, di David Gordon Green (Stati Uniti)



“Questo Halloween è il migliore tra tutti i film della saga” (citazione del Direttore Artistico della Festa del Cinema di Roma in occasione della conferenza stampa di presentazione dell’evento). Viene da chiedersi quindi quali lavori raccapriccianti debbano avere preceduto questo di David Gordon Green se questo è il migliore. 40 anni dopo quella notte di Halloween in cui Michael Myers fece l’esordio tra i grandi psycho-killer della storia: lui è in un penitenziario per malati di mente muto come un pesce, Laurie, unica sopravvissuta alla carneficina, ridotta ad un relitto umano, paranoica, ossessionata, beona, vive in una casa trasformata in fortezza. Insomma 40 anni dopo i conti dovranno essere saldati ed il destino, che coincidenza, vuole che ciò avvenga ancora nella notte di Halloween. Al di là della domanda di cosa ci faccia un film del genere in una rassegna cinematografica seppur chiamata Festa, tra l’altro in uscita al cinema tra una settimana, questo Halloween tenta di imbrogliare lo spettatore con un inizio che sembra volere esplorare maggiormente l’aspetto psicologico, ma quando compare il personaggio di Laurie quel minimo di interesse scompare e siamo nel più classico dei film pieni di luoghi comuni e personaggi stereotipati oltre ad autentiche assurdità narrative. Dispiace inoltre che John Carpenter, che del primo Halloween fu il degno regista, abbia voluto comparire, seppure solo come produttore esecutivo e compositore delle musiche, in un film che finisce di diritto nella lunga schiera di maldestri tentativi di riesumare quello che il lavoro del 1978 portava con sé. (Massimo Volpe)

Ether, di Krzysztof Zanussi (Polonia-Ungheria-Ucraina-Lituania-Italia)



Ambientato agli inizi del Novecento, il film racconta di un medico che sperimenta l’etere come sostanza in grado di ridurre il dolore e condizionare i comportamenti umani. Finito male un esperimento, il protagonista eviterà il boia mettendosi al servizio dell’Impero Austro-Ungarico dove, grazie alla complicità del comandante della guarnigione dove viene destinato, continua coi suoi esperimenti. Riflessione sulla scienza, sul valore della vita, su quanto si è disposti a mettere sul piatto della bilancia per raggiungere i propri obiettivi anche più turpi, assistiamo ad una versione rivisitata e corretta del mito di Faust. Purtroppo Ether, sebbene parta da presupposti interessanti, seppur non ben chiari all’inizio, rimane per troppi momenti confuso, anche perché la riflessione sul libero arbitrio, sul Male e sulla Fede non convince a pieno. Di positivo abbiamo un lavoro che comunque cerca l’esplorazione spirituale e descrive bene l’epoca storica sia nei costumi che nelle ambientazioni. (M.V.)

La diseducazione di Cameron Post (The Miseducation of Cameron Post), di Desiree Akhavan (Stati Uniti)



Cameron è una liceale del terzo anno che ha la colpa di provare attrazione per le ragazze anziché per i maschi. O meglio così la pensa la sua famiglia che, dopo essere venuta a conoscenza della sua relazione con una coetanea, decide di mandarla in un centro religioso, God’s Promise, dove una terapia a base di cristianità dovrebbe farla guarire da quello che viene considerato un peccato, ovvero l’omosessualità. Abbandonata nelle mani di un gruppo di fanatici religiosi in una zona sperduta di montagna e senza punti di riferimento con cui confidarsi, Cameron si ritroverà da sola a dover scegliere se cancellare una parte di se stessa per iniziare una nuova vita da eterosessuale o restare fedele alla sua natura. Vincitore del Gran Premio della Giuria all’ultimo Sundance Film Festival, La diseducazione di Cameron Post evidenzia i soliti pregi e difetti di tanto cinema indie americano: da una parte una messa in scena senza fronzoli che dialoga con lo spettatore rinunciando alla retorica dei buoni sentimenti nel trattare temi controversi (qui l’accettazione dell’omosessualità), cosa rara a Hollywood e dintorni; dall’altro lato un’introspezione priva di un vero sguardo riconoscibile, penetrante, nell’andare oltre l’abbozzo e la superficie di una denuncia di una condizione di disagio esistenziale. Per fortuna nel caso della regista Desiree Akhavan nel computo generale emergono più le cose buone che quelle cattive, soprattutto grazie alla prova maiuscola di Chloë Grace Moretz nei panni di Cameron. (F.S.)

The Old Man and the Gun, di David Lowery (Stati Uniti)



Ispirato alle gesta di Forrest Tucker, un rapinatore che fino alle soglie degli ottant’anni si è reso responsabile di decine di rapine e di rocambolesche evasioni, creando un personaggio tra l’eroico e il leggendario che destò grande scalpore e interesse, il film di David Lowery sovrappone l’immagine del protagonista con quella del suo interprete, Robert Redford, che per l’occasione ha annunciato l’abbandono delle scene. Strenuo inseguitore del rapinatore il detective John Hunt, che per lungo tempo gli diede la caccia rimanendo però sempre più stupito e affascinato dalla figura del ladro dal sorriso sempre sulle labbra e dai modi gentili, mentre negli ultimi anni Forrest ebbe come fedele compagna una donna, Jewel, rimasta anch’essa colpita dai modi gentili dell’uomo. Il racconto di Lowery, sostenuto da toni leggeri e disincantati, tratteggia i contorni di un uomo che solo nelle rapine e nella vita avventurosa trovava lo stimolo per avere una esistenza divertente, ed inevitabilmente riflette sul trascorrere del tempo sempre con uno sguardo carico di empatia e di nostalgia. Attraverso il racconto di un personaggio che ha i crismi dell’eroe da romanzo di appendice e grazie a dialoghi ben costruiti, The Old Man and The Gun è lavoro divertente, una commedia dai toni vintage che ben si configura come passo d’addio di una delle figure più importanti del cinema americano, accanto al quale brilla anche uno strepitoso Tom Waits che insieme a Danny Glover completa la banda di vecchietti terribili. (M.V.)

Se la strada potesse parlare (If Beale Street Could Talk), di Barry Jenkins (Stati Uniti)



Siamo nella Harlem degli Anni ’70. Tish e Fonny sono una giovane coppia afroamericana: sognano di andare a vivere insieme per iniziare a costruirsi una famiglia. Si conoscono da quando erano bambini e stanno per diventare genitori. Lei lavora come commessa in un grande magazzino, lui fa lo scultore. Il loro sogno d’amore rischia di infrangersi quando Fonny viene arrestato con l’accusa di aver commesso uno stupro. Il ragazzo finisce in carcere da innocente, un’ingiustizia figlia della discriminazione strisciante di una società in cui il Sogno Americano sembra essere precluso ai neri. Da un romanzo di James Baldwin (scrittore impegnato nella lotta all’uguaglianza razziale nell’America degli anni Sessanta e Settanta), Barry Jenkins ricava un altro paradigma della condanna alla discriminazione e dell’impossibilità all’autodeterminazione cui sono destinati gli afroamericani, dopo l’acclamato Moonlight che conquistò tre premi Oscar. Il film si sviluppa attorno a due livelli narrativi e visivi distinti: la purezza interiore che tiene uniti i due protagonisti, raccontata con un lirismo dei sentimenti vicino al parossismo, e il marciume della realtà sociale in cui vivono, dove si manifesta l’afflato ideologico di una testimonianza del clima di prevaricazione nei confronti delle persone di colore. Jenkins dà spesso l’idea di perdere il controllo dell’attrito tra queste due anime del film, esacerbate all’inverosimile da uno schematismo che non lascia spazio ad imprevisti e quindi ad emozioni. Se Jenkins vuole assurgere al ruolo di nuovo Spike Lee del cinema indie americano, beh, la strada è ancora molto lunga… (F.S.)

The Hate U Give, di George Tillman Jr. (Stati Uniti)



Ispirato al romanzo omonimo scritto dalla sedicenne Angie Thomas, autentico caso letterario non solo negli States, The Hate U Give racconta di Starr, una sedicenne afroamericana che vive, seppur in maniera più che dignitosa, nel tipico ghetto residenziale di una qualche città americana. La famiglia è unita con un padre stimato e ben voluto nonostante il suo passato da gangster nella banda del quartiere, una madre che ha come unico scopo quello di tenere i figli lontano dai guai, un fratello quasi coetaneo avuto dal padre con un’altra donna e uno più piccolo. Sia Starr che il fratello maggiore frequentano una scuola prestigiosa dove i bianchi sono in numero nettamente superiore: questa scelta della famiglia rivela la volontà di madre e padre di tenere i figli lontani dal ghetto e costruirgli un futuro che non passi necessariamente per le gang, la droga e i colpi di pistola. Starr, pur se con qualche difficoltà, riesce a vivere questa sua doppiezza divisa tra ghetto e ambiente scolastico tipico da bianchi progressisti, spronata dalla convinzione che ciò le consentirà una vita migliore. Quando però una sera un poliziotto uccide a sangue freddo un amico di infanzia di Starr con il quale la ragazza stava chiacchierando in macchina, la vita duplice che conduce diventa impossibile: per potere sperare nella giustizia per il suo amico la ragazza deve scegliere da che parte stare. Racconto costruito con intelligenza, tralasciando il solito finale all’‘americana’ del quale a quanto pare anche i film più validi non riescono a fare a meno, l’opera di Tillman ha il pregio di esplorare il conflitto razziale che ancora affligge l’America con uno sguardo meno schematico, basandosi invece sulla responsabilità personale di ognuno riguardo al problema: le colpe non stanno tutte dalla stessa parte ed evitare gli estremismi è l’unica via per poter superare le contrapposizioni violente: inoltre il racconto di come la famiglia di Starr e la ragazzina stessa affrontano il loro sentirsi neri, e per ciò temuti e disprezzati, raramente si presta a facili situazioni che troppe volte vediamo nei film con tematica simile. Nel cast ben amalgamato, spicca in maniera netta la prova della ventenne Amandla Stenberg, talento dalle potenzialità immense. (M.V.)

Hermanos (Brothers), di Pablo Gonzalez (Colombia)



Federico è un ragazzo che ha appena terminato di scontare una pena detentiva per una rapina finita male. Tornato a vivere nella sua città natale in cui degrado e abbandono regnano sovrani, decide di andare a lavorare in un altoforno, unica alternativa per lui al ritorno tra le fila del crimine organizzato. Quando però il fratello Ramon, suo complice nella rapina che gli costò il carcere, chiede il suo aiuto per ripagare un debito nei confronti di un temibile criminale locale, Federico si ritroverà di nuovo risucchiato in loschi affari che potrebbero mettere a rischio la sua vita e quella della sua famiglia. Il giovane Pablo Gonzalez (classe 1983) firma un dramma famigliare che mette in scena il peso dei legami di sangue e la loro degenerazione quando i rapporti personali sono contaminati dal desiderio del denaro facile. Tutto già visto e stravisto in altre salse: Gonzalez non sfrutta appieno né l’ambientazione rurale per quello che poteva essere uno sguardo antropologico di certe zone remote ed economicamente depresse del Sud America, né le non poche scene d’azione per offrire al pubblico un gustoso film di genere. Il regista si mantiene in mezzo al guado, scontentando un po’ tutti. (F.S.)

Green Book, di Peter Farrelly (Stati Uniti)



Nei primi Anni ’60 Tony lavora come buttafuori in un locale di New York. Quando il locale deve chiudere per alcuni mesi per lavori di ammodernamento, Tony trova come lavoro quello di autista di un brillante e geniale pianista afroamericano Don Shirley in procinto di affrontare un lungo tour che lo porterà a raggiungere anche gli Stati del Sud, dove l’intolleranza razziale è ancora ben consolidata. Inizialmente tra Tony e Dan sono più gli attriti che i momenti di armonia, ma come ogni buddy road-movie strada facendo tra i due cominciano a cadere le barriere ed inizia a svilupparsi un’amicizia seppur con momenti di tensione. Don accetta passivamente, cercando di non perdere mai la dignità, gli odiosi comportamenti razzisti persino di chi accorre per ascoltarlo suonare; Tony, tipo più alla mano e sempliciotto, invece è più propenso a risolvere i problemi a modo suo. La loro convivenza comunque procede attraverso una conoscenza sempre più profonda. Sfruttando un modello cinematografico consolidato, Peter Farrelly costruisce una commedia che se si limitasse ad essere tale risulterebbe di certo un film piacevole e ben riuscito; purtroppo però il tentativo di infarcire il racconto con valutazioni morali sul problema dell’apartheid, tra l’altro prive di originalità, lungi dall’arricchire il film lo impoveriscono facendogli spesso perdere la buona atmosfera da commedia. Come buddy movie, Green Book funziona, sebbene sia tutt’altro che originale, anche grazie alle eccellenti prove di Viggo Mortensen e di Mahershala Ali, come ennesima riflessione sul razzismo di cui pullula quest’anno la Festa del Cinema di Roma nei lavori presenti nella selezione ufficiale, non offre nulla di particolarmente interessante, anzi appare persino abbastanza pretenzioso in tal senso. (M.V.)

La Negrada, di Jorge Perez Solano (Messico)



L’1% della popolazione messicana è di origine africana, retaggio della schiavitù largamente presente fino a buona parte del XX secolo in tutto il continente americano, minoranza che non possiede alcun riconoscimento, né come identità tanto meno come comunità. La Negrada del regista messicano Jorge Perez Solano, sebbene sia spacciato come primo film di fiction che si occupa della comunità afroamericana messicana, di fatto è un documentario a sfondo antropologico, in cui si segue da vicino la vita di tutti i giorni in una piccola località marittima abitata dalla minoranza nera. Il racconto che si svolge nell’arco di pochi giorni, ci mostra una famiglia allargata nella quale il capofamiglia si avvale di una usanza radicata nella comunità di poter avere più di una compagna; tra gelosie, giochi da ragazzi, balli, pellegrinaggi, ristoranti caserecci sulla spiaggia assistiamo come si svolge la vita e come affrontano i problemi (compreso lo strisciante razzismo) i protagonisti del film che naturalmente sono attori non professionisti che interpretano se stessi. Dal punto di vista antropologico e sociale il film ha il suo interesse, una pellicola da canale monotematico tipo Nat Geo, un documento che squarcia il velo su una realtà molto poco conosciuta, con l’immancabile riflessione sul razzismo che, a quanto pare, è tematica che non può mancare nei film selezionati in questa edizione della Festa di Roma, persino in quelli non a stelle e strisce. (M.V.)

Morto tra una settimana… O ti ridiamo i soldi (Dead in a Week: Or Your Money Back), di Tom Edmunds (Regno Unito)



William è un giovane scrittore che non ne può più della sua vita di fallimenti: vuole a tutti i costi suicidarsi, ma ogni volta qualcosa va storto. Dopo sette tentativi andati a vuoto, tutti goffamente in modi diversi, decide di rivolgersi a un killer professionista, Leslie, che lavora in un’agenzia specializzata nell’escogitare una morte serena e indolore per le persone intenzionate a togliersi la vita. Dopo aver firmato un contratto di ingaggio vincolante, William attende di morire per mano di Leslie. L’incontro con un’affascinante editor cambia però i piani del ragazzo, spingendolo a non desiderare più la morte. Il guaio è che Leslie non ne vuole sapere di rescindere il contratto di ingaggio perché senza l’uccisione del ragazzo sarà costretto ad andare in pensione, l’ultimo dei suoi pensieri: William si troverà dunque a dover sfuggire al killer che lui stesso ha ingaggiato e pagato… Tom Edmunds, al suo primo lungometraggio, dichiara di volersi rifare al cinema dei fratelli Coen e di Martin McDonagh, e cioè a quelle commedie caratterizzate da uno humour nero di cui sono specialisti i registi di cui sopra e che sono forse tra le cose più difficili da fare oggigiorno. Ed infatti non bastano alcuni divertenti siparietti comici per avvicinarsi, pur lontanamente, ai modelli dichiarati: più che parlare di dark comedy, siamo dalle parti della sitcom, dal momento che tanto i personaggi quanto le loro azioni mostrano un’interazione limitata a qualche battuta di gusto e a nulla più. L’idea di partenza non è male (assoldare un killer per togliersi la vita), ma lo svolgimento ha il fiato corto tra situazioni che chiamano la risata a comando e un umorismo inglese col pilota automatico. (F.S.)

Monsters and Men, di Reinaldo Marcus Green (Stati Uniti)



Film indipendente, proveniente, con tanto di premio, dal Sundance e successiva tappa nell’immancabile Toronto, regista alla sua opera prima e tematica imperniata sulle tensioni razziali che solcano gli States: l’identikit perfetto per la tipologia dominante alla Festa del Cinema di Roma di quest’anno. Darius, un nero disarmato, viene ucciso dalla polizia al termine di una normale operazione di controllo di quartiere. L’uomo è ben voluto nel quartiere e la sua morte scatena la rabbia della comunità afro-americana. Manny, un giovane che sta per iniziare un nuovo lavoro e che riprende tutta la scena con il cellulare; un agente di polizia nero che appartiene alla stesso gruppo di quello accusato di aver premuto il grilletto; una giovane promessa del baseball che di fronte alla rabbia montante della comunità nera decide di abbracciare la causa: sono le tre prospettive con le quali il regista decide di esplorare le reazioni alla situazione di tensione razziale. Tre prospettive che sono però anche vere e proprie storie personali nelle quali ognuno dei protagonisti ha qualcosa da perdere o da guadagnare. Lasciando da parte per un attimo la ripetitività di alcune situazioni che giunti al settimo giorno di Festa, iniziano francamente ad essere stantie, la scelta di Green di raccontare il problema della tensione crescente tra polizia e comunità nera è apprezzabile grazie alla tripartizione abbastanza netta del racconto. Il problema però è che alcune situazioni e soprattutto alcuni personaggi stentano ad essere credibili, soprattutto il giovane giocatore di baseball, col risultato che le premesse sono valide, l’idea anche, ma poi lo sviluppo è decisamente deludente ed infruttuoso. Siamo insomma sempre alle prese con quelli che sono i veri problemi del cinema indipendente americano, dove troppo spesso è l’ideologia e non lo sviluppo della storia a dominare i lavori. (M.V.)

A Private War, di Matthew Heineman (Regno Unito-Stati Uniti)



Per il suo primo film a soggetto, il documentarista Matthew Heineman sceglie di portare sullo schermo la vera storia di Marie Colvin, reporter di guerra per il Sunday Time. Mostrandone la coraggiosa e rischiosissima attività giornalistica nei teatri più cruenti dei conflitti armati degli ultimi decenni, dall’orrore delle fosse comuni nell’Iraq di Saddam Hussein al caos di una Siria sventrata e annichilita dalla furia di Bashar al-Assad, il regista vuole consegnare all’eternità delle immagini il ritratto a tutto tondo di una giornalista che ha sacrificato ogni cosa della sua vita pur di assolvere alla sua missione di testimoniare le atrocità della guerra, e che per questo ha finito col pagare un prezzo altissimo in termini fisici e psicologici, tanto da finire per essere uccisa da una bomba durante uno dei suoi reportage in Siria. Il fine non giustifica i mezzi, e pur lodando la buona prova di Rosamund Pike nei panni della giornalista, non possiamo fare a meno di restare un po’ perplessi nel modo in cui Heineman cerca di rendere omaggio al lavoro della Colvin: ossia con un repertorio visivo e narrativo che cerca di smuovere la coscienza del pubblico con immagini e dialoghi che cercano la via delle emozioni attraverso un pietismo esibito. (F.S.)

American Animals, di Bart Layton (Regno Unito-Stati Uniti)



Nei primi anni del nuovo millennio due amici, studenti universitari nel Kentucky, organizzarono, coinvolgendo altri due studenti, il furto di alcuni preziosi libri conservati nella biblioteca dell’università del Kentucky e Lexington. Le motivazioni per la quali questi giovani rovinarono le loro vite apparvero sin dall’inizio oscure, considerato che tutti avevano una buona carriera scolastica e delle famiglie alle spalle solide e senza grossi problemi economici. Il lavoro del regista inglese Bart Layton, alla sua opera prima dopo svariati documentari per la TV alle spalle, ripercorre quell’episodio costruendo un heist movie atipico in cui accanto alla fiction hanno il loro ruolo fondamentale i quattro personaggi reali, tutti ormai liberi dopo aver scontato le pere detentive, che raccontano dal proprio punto di vista come siano andate le cose, perché qualche divergenza nella prospettiva dei fatti sembra esistere basandosi sul loro racconto. Di fatto, va detto, siamo di fronte ad una storia su due personaggi, i cervelli del colpo, che sembrano tutto tranne che due persone dotate di intelletto, anche perché la banale motivazione di tentare il colpo per “oltrepassare la linea” suona veramente superficiale e poco credibile. Qual è il motivo che li ha spinti ? Cosa nascondeva un gesto del genere? Erano in grado di capire i rischi che correvano? Erano spinti da un sacro furore che faceva di loro degli eroi maledetti? Tutto ciò il film di Layton non solo non lo spiega, ma le motivazioni che tenta di addurre appaiono ben poco convincenti. Il risultato è un lavoro che in alcuni momenti offre spunti divertenti, ha anche un discreto ritmo, ma risulta carente nello sviluppo dei personaggi soprattutto in relazione alle circostanza raccontate. (M.V.)

Beautiful Boy, di Felix Van Groeningen (Stati Uniti)



Nic ha 18 anni, brillante studente liceale, pronto ad iniziare il college, una buona famiglia (allargata) alle spalle. Quando la curiosità tipica giovanile lo porta a provare quasi per scherzo quella che nei primi anni del nuovo millennio fu una droga boom, la metanfetamina, la sua vita cambia per sempre: una dipendenza dalla quale non riesce a liberarsi nonostante periodi illusori di disintossicazione presso strutture specializzate e nonostante la famiglia, soprattutto il padre, cerchi di dargli tutto il sostegno necessario. Proprio la figura paterna è quella verso la quale Nic periodicamente sfoga tutti i suoi malesseri che coincidono con il suo stato di tossicodipendente. Forse è proprio il rapporto con un padre cui è stato affidato dopo la separazione con la madre del ragazzo, troppo apprensivo e pressante, o forse troppo poco padre e troppo amico, a scatenare in lui la forza autodistruttiva. Sta di fatto che il dramma di Nic è quello di tutta la famiglia che giunge al punto di mettere in gioco se stessa pur di tentare un salvataggio reso forse impossibile fino ad allora a causa della troppa tolleranza verso di lui. Beautiful Boy è il racconto di un dramma intimo che affligge larghi settori del mondo occidentale, e non solo, la descrizione di un percorso difficile, estenuante e spesso purtroppo non risolutivo da parte di tutta una comunità famigliare e dei rapporti di affetto e di amore che la animano. Un ritratto che, per fortuna, il belga Von Groningen qui al primo lavoro in lingua inglese, rimanendo ancorato alla tradizione europea, non cerca mai, neppure nel finale, di rendere più digeribile e rassicurante per il pubblico, evitando così il facilissimo trappolone sentimentale-emotivo. (M.V.)

Millennium - Quello che non uccide (The Girl in the Spider’s Web), di Fede Alvarez (Regno Unito-Svezia-Canada-Germania-Stati Uniti)



La sagra di Millennium, legata fino ad ora alla trilogia del defunto Stieg Larsson cui è subentrato a partire dal quarto libro David Lagercrantz, riparte dal punto di vista cinematografico praticamente da zero: regista nuovo (Fede Alvarez) ed eroina dal volto nuovo (Claire Foy) che va a sommarsi a Noomi Rapace, protagonista dei primi tre episodi cinematografici ed anche a Rooney Mara che fu la protagonista della versione hollywoodiana di David Fincher del primo capitolo. Nel nuovo episodio, thriller ad alto impatto tecnologico, ritroviamo la hacker Lisbeth Salander alle prese con un sofisticato programma di gestione delle armi atomiche il cui inventore vorrebbe togliere dalle mani degli americani per i quali lo aveva sviluppato. Intorno al software si muovono anche apparati svedesi statali deviati, ovviamente gli americani e un gruppo di feroci assassini capitanato dalla sorella di Lisbeth, che in un breve prologo-flashback di 16 anni prima vediamo rimanere nelle grinfie del padre psicopatico mentre Lisbeth riesce a fuggire. Per la protagonista non sarà solo una battaglia durissima contro avversari spietati, ma anche, soprattutto, un guardare in faccia il passato per saldare i conti con l’odiata sorella. Dal punto di vista tecnico il film offre momenti da autentico thriller adrenalinico, ma Alvarez cerca di focalizzarsi anche sull’aspetto psicologico, soprattutto nel feroce confronto tra le due sorelle, alternando i momenti più frenetici con quelli in cui sembra indirizzarsi maggiormente verso l’analisi più approfondita dei due personaggi. Nel complesso, pur senza brillare, il film risulta un riuscito film di genere e di intrattenimento; l’inevitabile paragone che si pone tra Claire Foy, Noomi Rapace e Rooney Mara è fortemente penalizzante per la prima cui difetta decisamente il carisma e la personalità delle altre due. (M.V.)


Tutti ne parlano

An Elephant Sitting Still, di Hu Bo (Cina)



Una luce in fondo al tunnel: alla Festa del Cinema di Roma abbiamo dovuto attendere l’ultimo giorno di programmazione, dopo un numero che sembrava infinito di visioni di film troppo spesso convenzionali e standardizzati, per incrociare lo sguardo con un lavoro di grande spessore artistico ed umanistico. Il film è arrivato a Roma dopo un percorso a dir poco accidentato: il regista suicidatosi prima dell’anteprima mondiale al Festival di Berlino 2018, i problemi al montaggio per il final cut con Wang Xiaoshuai, produttore con la sua Dongchun Films, che hanno avuto – o almeno così pare – una ricaduta nella decisione di Hu di togliersi la vita, la durata apparentemente spropositata per un’opera prima (quasi quattro ore). Si narrano le vicende di quattro personaggi che si intrecciano sotto il cielo plumbeo di una cittadina nel nord della Cina. Tutto si svolge nell’arco di una giornata, in un contesto fortemente degradato in cui il benessere della nuova Cina sembra non essersi mai affacciato se non attraverso il miraggio di riqualificazioni edilizie dietro cui si intravedono possibili speculazioni. Wei Bu è un giovane liceale che vuole far perdere le sue tracce dopo aver mandato all’ospedale un bullo della sua scuola, Huang Ling è la sua amica diciassettenne e compagna di scuola la cui esistenza viene sconvolta dalla scoperta di un video finito online che rivela a tutti la sua relazione con un uomo più anziano, Wang Jin è il vicino di casa del ragazzo che non si vuole arrendere all’idea di andare a vivere in un ospizio come vorrebbe il figlio e la sua famiglia, Yu Cheng è il fratello del bullo finito in ospedale, un piccolo boss locale che si mette sulle tracce di Wei Bu per vendicarsi del suo gesto mentre deve contemporaneamente fare i conti con il suicidio del suo miglior amico. Tutti personaggi accomunati da una vita privata vessata dal peso dei rapporti familiari, da una realtà quotidiana senza sbocchi e da una voglia di cambiare un destino già scritto. Quello che colpisce del film, e che finisce col tramortite le emozioni di chi guarda, è il senso di profondo abbandono che emanano i volti dei protagonisti e la putredine dei luoghi da cui essi vorrebbero sfuggire. Volti e luoghi scolpiti da una messa in scena in soggettiva in cui abbondano forsennati e magnifici lunghi piani sequenza che giocano con continui fuori quadro e fuori fuoco nebulosi e indistinti per immergerci nel senso di impotenza dei personaggi. Al di là dell’aura da film a dir poco travagliato che lo ha accompagnato prima di arrivare sullo schermo, An Elephant Sitting Still è un’opera unica che rivela un'intensità drammaturgica e una consapevolezza registica rare, soprattutto se si pensa che si tratta di un’opera di esordio. Purtroppo il percorso di Hu Bo si è fermato qui: la sua perdita ha privato il cinema di una figura registica che avrebbe avuto ancora molto da dire. Uno degli esordi più fulminanti degli ultimi anni. (F.S.)



Incontri ravvicinati

Incontro con Thierry Fremaux, di Antonio Monda (Francia-Italia)



Thierry Fremaux è il direttore del prestigioso Festival di Cannes, rassegna che si svolge annualmente a maggio in una ridente località della Costa Azzurra. Reduce dal successo del suo Festival Lumiere a Lione (rassegna che propone per lo più classici restaurati), decide di recarsi a Roma per essere intervistato da Antonio Monda, direttore artistico della Festa del Cinema di Roma, in uno degli incontri aperti al pubblico della giovane kermesse capitolina. Tema del dibattito: “il significato dei festival cinematografici e la loro evoluzione”. Non ci vuole molto prima che il dialogo tra Monda e Fremaux si sposti su altri fronti: sulla Mostra del Cinema di Venezia, rivale storica di Cannes e recentemente al centro di alcune polemiche con la rassegna romana. Ad una prima domanda di Monda se è vero o no che Roma di Alfonso Cuaron, acclamato Leone d’oro a Venezia, era stato selezionato a Cannes, Fremaux evita di fornire una risposta, anche se molti sanno già come la pensa (per un veloce ripasso, leggi qui). Ma meglio ribadirlo e così, sollecitato una seconda volta da un Monda forse particolarmente interessato alla risposta, Fremaux non si trattiene e ammette che, beh sì, Roma era stato visto a Parigi e selezionato da lui, ma poi Netflix ci ha messo lo zampino e così il film è stato lasciato a Venezia. Fremaux rivela al suo compagno di conversazione: “Ero a Venezia per vedere il film (ma come, non l’aveva già visto a Parigi?, ndr.), incontrai Cate Blanchett (presidente di giuria a Cannes 2018, ndr.) a cui chiesi ‘che ci fai qui?’. E lei mi rispose, riferendosi a Roma, ‘sono venuta per vedere il 22esimo film del concorso di Cannes’”. Da qui in avanti Fremaux, stuzzicato a più riprese, è un fiume in piena che rischia di tracimare. “A Cannes la stampa è più esigente di Venezia. Spesso rifiuto un film per Cannes e a Venezia vince. Ma a Cannes quel film non avrebbe vinto. Perché a Cannes ci si aspetta di vedere almeno due capolavori al giorno. Il livello è alto”. E poi: “A Cannes pochi film americani, a Venezia tanti: però il mio amico Alberto Barbera (direttore della Mostra, ndr.) non aveva Hirokazu Koreeda, noi avevamo anche un film coreano, un altro egiziano... Venezia fa il suo gioco, fa bene a prendere i lavori di Netflix da noi rifiutati e a giocarsi la carta dei film americani, perché la stampa è ormai ossessionata dagli Oscar. Ma come selezionatore preferisco che Cannes sia una fotografia del cinema mondiale a maggio. Se poi si vuole che Cannes diventi un festival americano, allora lo si dovrebbe spostare a settembre”. Monda informa il suo ospite di come la Festa di Roma sia anch’essa aperta al cinema globale: “Noi non siamo Venezia o Cannes, ma abbiamo 27 film da tutto il mondo”. (Noi in realtà ne abbiamo contati 16, escludendo i Paesi che figurano come coproduttori).
Questo Incontro con Thierry Fremaux sembra un film dell’assurdo, ma in realtà è un evento realmente avvenuto nella sezione Incontri Ravvicinati della Festa del Cinema e che valeva la pena di essere raccontato in questo spazio. Assurdo per quello che viene detto senza contraddittorio. Non sappiamo che concezione abbia dell’amicizia Fremaux, ma quello che racconta sulla Mostra farebbe piacere ad un cosiddetto ‘amico’? Roma è un dono di Cannes indirettamente elargito a Venezia: ma Cuaron non era già stato tre volte alla Mostra, la prima nel 2001, e neanche una a Cannes? Venezia è una sorta di festival degli scarti di Cannes: ammesso sia così, ma se un direttore vede che i film scartati per la sua rassegna vengono premiati in altri festival, forse non sono i film il problema ma chi li seleziona che non è in grado di valorizzarli, o no? Cannes è la vetrina del cinema mondiale: invece per anni è stata ed è tutt’ora il tempio del club degli habitué, altrimenti perché non si è accorta dei vari Koreeda e Lee Chang-dong, di cui ora si vanta, sempre dopo Venezia, che quei registi li premiò e lanciò in concorso prima di tutti? Venezia vuo’ fa’ l’americana: una volta si poteva dire il contrario quando il tempismo era favorevole a Cannes, altrimenti come si spiegano le 21 Palme d’oro contro i 10 Leoni d’oro al cinema americano? Tante le domande che ci portiamo dietro a fine ‘spettacolo’, ma soprattutto un dubbio, fin dal giorno in cui era stato annunciato un incontro con Fremaux: perché mai un dibattito su “il significato dei festival cinematografici e la loro evoluzione” dovrebbe interessare a quella che sarebbe una Festa del Cinema, ovvero - come ci viene narrato da Monda e soci - a ciò che è di più lontano dalle logiche dei cinefestival? Qual è il vero obiettivo di un evento simile che ha per protagonista il più grande rivale di Venezia? (F.S.)




Lascia un commento

Assicurati di inserire (*) le informazioni necessarie ove indicato.
Codice HTML non è permesso.

Questo sito utilizza cookie per il suo funzionamento. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie. Se vuoi avere maggiori informazioni, leggi la Cookies policy.