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C'era una volta a New York - Recensione

Mirabile melodramma ambientato nell'America degli Anni Venti, il nuovo lavoro di James Gray racconta i sentimenti e la lotta per una vita migliore per la quale si è disposti a sacrificare ogni cosa

Siamo nell’America degli Anni Venti, invasa dai profughi  europei della Grande Guerra che vedono nell’America la salvezza e la speranza per una vita felice. Le navi vomitano ad Ellis Island migliaia di derelitti, persone cui la guerra ha lacerato il corpo e lo spirito: tra questi due giovani sorelle polacche, superstiti di una famiglia sterminata dagli orrori della guerra. Magda viene trattenuta sull’isola perché malata di tubercolosi, Ewa invece viene espulsa appena messo piede sulla terra promessa perché colpevole di atti di dubbia moralità (e poi vedremo che non è stato proprio così). La salvezza per Ewa è Bruno, faccendiere, mezzo impresario teatrale, mezzo magnaccia che le offre una via di fuga. La donna ben presto capisce che questa magnanimità apparente ha un prezzo e che il suo destino è legato a quello dell’uomo nella speranza di potere riavere vicino a sé la sorella. Quando in scena compare Emile, cugino di Bruno, scanzonato spirito libero che sembra offrire alla donna un futuro più dignitoso, Bruno si oppone divorato dall’amore e dalla possessività per la donna.
C’era una volta a New York
(The Immigrant), solita ridicola traduzione italiana che cerca chissà quali facili suggestioni nel titolo, è l’ambizioso lavoro di James Gray, che ripropone in grandi linee quelle che sono le tematiche care al regista, soprattutto quelle legate alla sua esperienza di discendente di profughi ebrei: come in Little Odessa anche qui c’è un universo che vive ai margini della grande metropoli e la scelta di mettere al centro del racconto una donna, cattolica, che si ritrova nel quartiere dei profughi ebrei dell’est Europa, è una scelta ben calibrata proprio per accentuare l’ambiente ostile che circonda chi arriva in cerca di benessere.
Ma se nei precedenti lavori era il noir ed il thriller a fare da impalcatura narrativa, stavolta Gray opta per il melodramma, per il racconto dei sentimenti che si esplica in maniera efficace nelle figure di Ewa e di Bruno e sul loro rapporto di mutua dipendenza che si instaura: la donna, conscia di contravvenire ai suoi doveri morali e religiosi accetta uno stile di vita non consono per poter racimolare soldi ed aiutare la sorella, oltre che per oliare gli ingranaggi di Ellis Island che Bruno conosce bene. Quest’ultimo sembra dipendere dalla ossessione amorosa verso la donna, un amore di quelli tragici, sporchi e balordi che lo consumano: amore e odio che si rincorrono e si intrecciano lungo tutta la durata del film. Forse la svolta finale di Bruno appare un po’ troppo forzata, ma il contesto funziona bene, anche quando entra in scena il terzo incomodo che causa la deflagrazione della storia: per Ewa conta solo la salvezza sua e della sorella, per questo è disposta a subire ogni cosa e ad accettare ogni compromesso, anche se nel profondo deve lottare con i suoi sentimenti.
Il lavoro di ricostruzione storica da parte di Gray è pregevole: l’essersi affidato agli ambienti originali di Ellis Island, ad esempio, regala un qualcosa di più vero ed emozionante alla storia, ed il fatto che nel complesso questo racconto è così simile a quello dei suoi antenati emigrati dona al film quella sincerità e quella sentita genuinità che costituiscono sempre un grande pregio per un film.

A completare l’impianto eccellente concorrono sia Marion Cotillard che Joaquin Phoenix grazie a due prove degne di nota: la prima ha la innata capacità di recitare con gli occhi e lo sguardo, il secondo invece crea un personaggio dalle mille sfaccettature che pur nel suo essere detestabile ha begli sprazzi di umanità.

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