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Blue Jasmine - Recensione

Un dramma esistenziale di disagio mentale e solitudine sullo sfondo di un’umanità misera e inutile dove niente si salva. Nemmeno il drammaturgo Woody Allen, troppo distante perché seduca e coinvolga nel dolore mostrato

Da anni, con scadenza quasi da collana letteraria, Woody Allen propone al pubblico nuovi titoli del proprio teatro personale. Il più delle volte si tratta di commedie, meno spesso tragedie o gialli. Qualsiasi tinta assuma la trama, però, si è sempre certi di trovarci all’interno di uno spazio conosciuto, di un modo di disegnare i personaggi che, per quanti sforzi possano fare gli attori coinvolti, resta sempre bidimensionale, pur in una notevole e spesso sagace complessità figurativa. E’ come se la scrittura del regista soffrisse (o cercasse) una razionalizzazione delle emozioni e delle passioni che costituiscono la carne e il sangue di ogni narrazione. Come se la sceneggiatura fosse psicanalizzata alla fonte.
E’ questo il caso anche di quest’ultimo lavoro Blue Jasmine, incentrato quasi totalmente sulla figura di Jasmine, una quarantenne disillusa e psichicamente disastrata che, dopo una vita passata nel lusso e nell’agio offertole dal marito, un ricco uomo d’affari newyorchese, si ritrova senza soldi e senza casa. Il marito è stato arrestato per truffa e lei è costretta a chiedere asilo e aiuto alla sorella adottiva, che vive alla periferia di San Francisco.
Cate Blanchette, che interpreta la protagonista, è indubbiamente molto brava. Il ruolo le sembra cucito addosso e la componente di malattia psichica offre a ogni attore la possibilità di strappare grandi consensi (si parla già di candidatura all’Oscar). Eppure, nonostante il grande mestiere, nemmeno l’attrice australiana riesce a essere davvero coinvolgente. Il dramma personale di Jasmine, i suoi disturbi mentali, forse fin troppo motivati nel corso del racconto, persino il complesso rapporto con la sorellastra, restano in superficie. I fitti dialoghi o i monologhi, pur se funzionali alla descrizione della vicenda, costituiscono un’intercapedine verbale che ne annegano e congelano il pathos. Ne conseguono un’inevitabile astrazione e un’identificazione con l’occhio cinico e clinico dell’autore.
L’umanità descritta, con le sue motivazioni, aspirazioni, comportamenti, è irreparabilmente vuota e inutile. Nessuno è escluso. Il fidanzato della sorellastra (Sally Hawkins) è sì innamorato, ma anche grezzo e piagnone. Il suo amante (uno spentissimo Louis C.K.), tenero e sensibile, è sposato e succube della moglie. Il dentista da cui lavora la protagonista è un mezzo maniaco. Il suo promesso sposo si fa attrarre dalle firme dei suoi vestiti e degli accessori.

Fortunatamente per noi, i personaggi di Allen non ci somigliano più di tanto e non sono nemmeno maschere che riflettono i nostri vizi o le nostre meschinità. Sono figurine inconsistenti, come quelle del Teatro Magico ne Il lupo della steppa di Hermann Hesse, ma senza il valore didattico e iniziatico di queste ultime. Anche la consapevolezza sull’inconsistenza del modo di vivere e dei valori dell’Occidente entra, quindi, a mangiarsi la coda nella rappresentazione, lasciando in piedi solo uno specchio che riflette se stesso in un rimando indefinito e, alla fine, poco interessante.

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