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La leggenda di Kaspar Hauser - Recensione

L’attenzione ai dettagli e l’originale re-interpretazione di una vecchia leggenda dal fascino indiscusso non rendono un film perfetto: La leggenda di Kaspar Hauser, di Davide Manuli, è un buon esempio di virtuosismo alla regia, ma non colpisce lo spettatore nelle emozioni

Il corpo di un giovane viene trascinato a riva dalla marea. Nessuno degli abitanti dell’isola sa chi sia, ma il misterioso ragazzo, che non sa altro se non il suo nome (Kaspar Hauser), arriva a sconvolgere la vita di una comunità. Si tratta di un gruppo molto ristretto di persone, sei in totale: la Granduchessa (partecipazione straordinaria di Claudia Gerini), lo Sceriffo e il Pusher (entrambi interpretati da Vincent Gallo), la Veggente, il Drago e il Prete (Fabrizio Gifuni). Nonostante il numero così esiguo di abitanti, la presenza di Kaspar crea scompiglio tra chi vede in lui una minaccia e chi invece lo riconosce come un santo, tornato per riportare l’ordine.
Il regista Davide Manuli, sempre fedele a una maniera molto personale di raccontare le storie, non si tira indietro neppure in questo caso. Le origini della storia arrivano da un fatto di cronaca molto particolare, accaduto nel XIX secolo in Germania: un giovane apparso dal nulla, che non ricordava il suo nome ma accusava disturbi nel comportamento e reagiva molto violentemente a qualsiasi impressione sensoriale. Il regista tratta l’argomento trasponendolo in una possibile realtà dei giorni nostri: il giovane protagonista non è un personaggio ottocentesco, ma un ragazzo del presente, con una vera e propria fissa per la musica elettronica, che veste abiti sportivi e studia per diventare deejay.
In Italia il film non fa parte di alcun circuito di grandi distribuzioni, mentre in altri Paesi europei come la Francia è già conosciuto da oltre un anno. Uno dei motivi della calda accoglienza da parte dei francesi è probabilmente la presenza di Vitalic, uno dei musicisti più conosciuti, che ‘allieta’ il film con la sua musica elettronica.

Sicuramente negli intenti di Manuli non c’era quello di annoiare, ma in soli 87 minuti ci riesce molto bene: il ritmo lento e la desolazione che fa da sfondo alla storia, sono creati per far capire la voglia di uscire dal solipsismo, come soluzione all’incapacità di comunicare (Hauser può esprimersi al meglio solo in Paradiso, dove riesce finalmente a fare il deejay), tuttavia finiscono anche per non far godere appieno di un film che risulta pesante e lascia un gran vuoto dopo il finale.

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