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Stoker

Il lussuoso e visionario furore registico di Park Chan-wook, in trasferta americana, si perde nella palude di un dramma famigliare scritto male, in cui il gotico e l’horror sembrano scaturire più da intenti produttivi che dall’ineluttabilità della narrazione demiurgica

L’incipit di Stoker di Park Chan-wook è potente. Dopo i titoli di testa, che emergono dall’ambiente in cui si muovono le prime sequenze come già in I’m a Cyborg, But That’s OK, vediamo la giovane India (una bravissima Mia Wasikowska) presentare se stessa, come una che ‘vede cose che gli altri non vedono’ e che si sente libera per avere capito e accettato il proprio destino come qualcosa d’immutabile. Lei è sul ciglio di una strada immersa in una campagna lussureggiante di fine primavera, con fiori e colori caldi e saturi. I movimenti di macchina, i suoni iperrealisti e la fotografia lasciano senza fiato per bellezza e perfezione.
Ci si accomoda sulla poltrona, pronti a seguire il ‘Pifferaio di Seul’ ovunque vorrà.
C’è un funerale (quello del ricco signor Stoker, padre di India), una vedova ambigua e poco affranta (la madre Nicole Kidman) e un seducente e misterioso zio Charlie (l’inespressivo e anonimo Matthew Goode), fratello del defunto e di cui nessuno conosceva l’esistenza, che s’installa nella casa e ha un’evidente simpatia per la nipote.
La trama s’infittisce. India è una ragazza ‘strana’, taciturna. Il papà le ha insegnato a cacciare gli animali, invece che a giocare con le bambole. I coetanei la sbeffeggiano. La madre sembra attratta dal cognato. Una parente in visita è visibilmente spaventata dalla presenza dell’enigmatico zio. Qualcuno morirà…
Purtroppo, tutta questa legna, invece che alimentare una fiamma sempre più intensa, brucia male. La colpa è di una sceneggiatura assai modesta (a firma dell’attore Wentworth Miller), dove alcuni punti chiave sono lasciati irrisolti (ad esempio il grande legame che Charlie sente con la nipote) o, al contrario, liquidati nel modo più banale (la sensualità del male vissuta da India). I riferimenti a L’ombra del dubbio (lo zio Charlie) di Alfred Hitchcock, evocati da Miller, sono risibili. La suspense non si crea. Alcuni suoi meccanismi fondamentali (tempi e movente, ad esempio) non sono rispettati. Il regista ci affascina con invenzioni (il ragno, quasi suo alter ego, che testimonia e percorre tutta la storia) ed ellissi (i capelli che diventano erba dei campi) ma non bastano. La storia arranca e il racconto di (tras)formazione di India annaspa più volte per mancanza di appigli plausibili. Al posto della laconicità espressiva di Sympathy for Mr. Vengeance, troviamo fatti inconsistenti o incoerenti, forse per colpa di venti minuti di tagli voluti, sembra, dalla produzione.

Prima del finale, che si ricollega all’inizio e che è altrettanto bello e maestoso, un elaborato flashback cerca di ricomporre in un quadro coerente gli scombinati tasselli della storia. Ci riesce in parte e l’impressione che si ha, alla fine, è identica a quella di tanti film horror, dove la sospensione della razionalità imposta dalla teurgia del genere, fa sentire lo spettatore un po’ scemo e settario, il contrario dell’effetto ottenuto dall’ormai inarrivabile, temo, Old Boy.

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