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Reality

Una immagine tratta da RealityMatteo Garrone si slega dalle tematiche sociali di Gomorra, per portare sullo schermo la storia di un uomo semplice, ossessionato dalla televisione e dalla possibilità di farne parte. Atmosfere surreali in questa fiaba noir ambientata nei sobborghi di Napoli. Film di grande impatto visivo, Garrone ancora una volta si dimostra un ottimo autore, con uno stile personale ed evocativo

Dopo il Gran Prix all'ultimo Festival di Cannes, arriva nelle sale italiane Reality, che racconta la storia realmente accaduta di un pescivendolo di un quartiere periferico di Napoli. Luciano ha una moglie, dei figli e una famiglia molto presente. La sua vita è semplice e senza troppe preoccupazioni, ma viene sconvolta quando, spinto dai familiari, decide di partecipare ai provini del Grande Fratello. All'inizio senza troppa convinzione, e poi con una grande aspettativa, Luciano va a Roma con la famiglia per il provino finale. Sembra soddisfatto ma ora inizia a strisciare dentro di lui un'angoscia sempre più forte mentre aspetta la telefonata della sua vita: vuole a tutti i costi partecipare al programma per diventare ricco e famoso. Purtroppo i giorni passano ma sembrano essersi dimenticati di lui. L'ossessione sfocia nella paranoia di essere spiato dagli autori del programma, spie venute ad osservarlo nei suoi comportamenti per capire se è adatto a diventare un personaggio tv...
La scena iniziale è l'incipit perfetto: dall'alto la macchina da presa segue una carrozza con dentro due sposi, e noi insieme allo sguardo del regista ci caliamo nel mondo popolare di Napoli, dove regna il kitsch e l'eccesso. Un'inquadratura senza stacchi utile per introdurci gradualmente nel contesto culturale del protagonista, un uomo semplice che insegue un sogno effimero. Matteo Garrone ha sempre amato giocare con la realtà e le sue devianze. Fin dai primi film, ha inseguito con la sua macchina da presa il ceto popolare, portatore di racconti di vita quotidiani, vicende realmente accadute e scorci di esistenze al bivio, senza per questo avere la pretesa di veicolare intenti pedagogici o una semplicistica denuncia sociale. Una scommessa con la realtà che per molti è stata identificata con il realismo cinematografico, per altri semplicemente un approccio autoriale evocativo e poetico, fuori dal comune per la potenza visiva e narrativa.
Ora il regista ritorna a pedinare con passo felpato la realtà della periferia. Dopo Gomorra infatti Garrone poteva solo ritornare al passato, raccontando una storia intima, lontana dalle tematiche universali e sociali della guerra di camorra. E non stupisce che lo faccia con una chiara metafora sulla realtà e sulla sua rappresentazione: il reality televisivo come mistificazione della vita autentica, un modo per il protagonista di legittimare la sua vita, certificando la propria esistenza attraverso la fama. L'osservazione di questi meccanismi distorti ha radici molto profonde. Non siamo di fronte ad una critica sociale sul mondo effimero della tv, per lo meno il film non è solo questo. Garrone infatti analizza il problema da una prospettiva più intima e personale che va a toccare un uomo puro a modo suo, ammaliato da seduzioni inconsistenti e vuote, che possono colpire ogni essere umano, non solo chi aspira al successo facile del mondo patinato.
Inquadrature evocative e quasi surreali con una fotografia curata dal rimpianto Marco Onorato, che qui fotografa il suo ultimo lavoro, sposando i colori freddi, in un ambiente che sembra circense per le atmosfere ricche di colore e quasi oniriche. Una commedia che si fa dramma nella seconda parte, con un crescendo sempre più incessante della patologia del protagonista. Scena cardine di questa deriva, l'osservazione da parte di Luciano di un grillo (parlante?) che per lui è una telecamera camuffata, ennesima riprova della sua follia. Le domande che Garrone si pone sono molteplici, prima fra tutte l'interrogativo investe la nostra percezione della realtà e le sua mistificazione. Un quesito che nel caso del protagonista, diventa una malattia, una deviante ricerca della sua identità, che possa soddisfare lui e soprattutto gli altri. La sua voglia di diventare qualcuno non è un desiderio sano di distinguersi per un talento, ma è un voler distinguersi per il successo, per la fama sterile derivata dall'apparire. Ecco perché il protagonista costruisce la sua realtà attraverso la fantasia, vivendo in un mondo magico in cui non ha più senso la distinzione tra realtà e finzione.
Un film ineccepibile da ogni punto di vista, dalla fotografia di cui abbiamo già scritto, alla colonna sonora vagamente inquietante e fiabesca di Alexandre Desplat, fino alla messa in scena frutto di una consapevolezza stilistica fuori dal comune. Tra il cast spicca l'attore protagonista Aniello Arena, un ergastolano del carcere di Volterra, che lavora per una compagnia di detenuti e che per girare il film ha dovuto ottenere un permesso speciale dal magistrato. Un volto e un corpo spigoloso, espressivo e dotato di grande talento che sembra uscito da un film del neorealismo italiano Anni '50.

Garrone firma la sceneggiatura con i suoi collaudati autori Chiti, Gaudioso, e Braucci e ci regala l'ennesima prova di un maestro del cinema italiano, dotato di uno spessore registico che insegue le piccole storie per dare vita a racconti universali.

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