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Intervista a Salvatore Mereu

Il regista sardo racconta l’esperienza come presidente della giuria Venezia Classici alla 75esima edizione della Mostra d’Arte Cinematografica. I grandi film restaurati e i documentari visti insieme agli studenti di cinema

Quando lo ha chiamato il direttore Alberto Barbera, non ha potuto dire di no. Anche se all’orizzonte aveva l’inizio delle riprese del suo nuovo film. Per partecipare alla Mostra del Cinema come presidente della giuria Venezia Classici, Salvatore Mereu ha in effetti interrotto per circa due settimane la realizzazione di Assandira, questo il titolo del lungometraggio ispirato a un romanzo di Giulio Angioni, partito attivamente alla vigilia del festival con i primissimi ciak di un progetto che il regista sardo coltivava da anni. Impossibile rifiutare un invito così prestigioso e troppo forte il legame con Venezia, dove Mereu ha presentato quasi tutti i suoi lavori. Dal fulminante esordio Ballo a tre passi nel 2003 a Bellas mariposas, passando per il corto Transumanza inserito nel film collettivo realizzato per celebrare la settantesima edizione della Mostra e due opere come Tajabone e Futuro prossimo che, seppur nate all’interno di esperienze didattiche, hanno avuto la ribalta del festival. Probabilmente anche per questa sua vocazione da insegnante è stato scelto come presidente della giuria di studenti di cinema (26 allievi, indicati dai docenti, dei corsi di cinema delle università italiane, dei Dams e della veneziana Ca’ Foscari) che ha assegnato i premi della sezione Venezia Classici. Miglior film restaurato: La notte di San Lorenzo di Paolo e Vittorio Taviani. Miglior documentario sul cinema: The Great Buster: A Celebration di Peter Bogdanovich.

Mereu, com’è stata questa nuova esperienza?
Fantastica. Un privilegio poter rivedere, su grande schermo, film incredibili che magari avevo visto soltanto in televisione. E poi la qualità dei restauri. Per esempio Morte a Venezia riportato in vita così, in una versione davvero sontuosa, ti toglie il fiato.

C’era nel programma dei classici anche qualche film che non conosceva?
Sì. Mi ha colpito tantissimo Khesht o Ayeneh di Ebrahim Golestan. Un film iraniano, del 1964, davvero straordinario. Ci si ritrovano cose tipiche del cinema di Panahi, per questa idea di pedinamento, e di Farhadi, per il modo di intrecciare trame in modo apparentemente casuale. Immagino che per loro Golestan sia un maestro.

Quanto è stato difficile scegliere un vincitore tra tanti capolavori?
Un compito arduo. Non è facile giudicare opere di così grande importanza, fare delle comparazioni tra film diversi ma tutti capolavori. In un concorso normale speri di trovare uno o due filmoni, qua lo erano tutti. Diciassette classici che hanno segnato la storia del cinema. Per la sezione documentari è stato più facile e poi erano soltanto sette.

Come ha lavorato con i ragazzi della giuria?
Facevamo ogni due giorni una riunione per discutere dei film. A ogni incontro cercavamo di fare una rosa delle nostre preferenze e di capire quali erano i titoli da portare avanti. Quando c’era incertezza si andava ai voti riservandoci la possibilità in qualche riunione successiva di riconsiderare qualche film se magari fosse cresciuto nella memoria dell’esperienza del giurato. Il gruppo dei ragazzi era numeroso e composto ovviamente da varie anime. Tra chi amava il cinema di genere, chi gli autori orientali, chi i grandi europei. E questa cosa emergeva nelle discussioni. Tutti, però, in generale sono rimasti colpiti dalla qualità dei film.

Cosa ha detto agli studenti quando vi siete conosciuti, alla vigilia della prima proiezione?
Parliamo di ragazzi preparati, che fanno studi di cinema. Una cosa che ho raccomandato molto è stata quella di cercare di capire quando i film crescono alla distanza. E poi ho invitato tutti a guardarli non soltanto con la testa, facendo attenzione al linguaggio e a quello che hanno studiato, ma anche con il cuore.

Lei che è un regista ci riesce ancora?
Devo dire che per anni ho pensato di essermi un po’ distrutto la vita di spettatore puro. Perché guardando alle inquadrature, al montaggio avevo la sensazione di aver finito per rovinare il giocattolo. Ma ho recuperato in un certo senso la mia verginità di spettatore e quando vado al cinema cerco di lasciarmi andare, di farmi trascinare. Chiaro che ho la consapevolezza dei tagli, quella non la perdi più, ma riesco lo stesso a essere uno spettatore che si fa avvolgere dalla trama e dai personaggi. E quando il film è buono mi dimentico delle inquadrature.

A Venezia è riuscito a vedere anche film di altre sezioni?
Pochi per avere una panoramica di questa edizione. Del concorso mi sono piaciuti molto Roma di Alfonso Cuarón e soprattutto Nuestro tiempo di Carlos Reygadas dove ho respirato una verità incredibile. Lui e la moglie, che non sono attori, risultano davvero bravissimi. Il fascino particolare del film deriva forse dal fatto di essere davanti a una tranche de vie, organizzata dentro un racconto. È come se lui per un attimo ti facesse entrare nell’esistenza del personaggio e tu sei ammesso ad assistere alle questioni anche più private.

Quanto è stimolante vedere film per chi fa il suo mestiere?
Per quanto mi riguarda continuo a essere molto appassionato, a vedere tanti film. Sono un grandissimo stimolo. Accade naturalmente, specie nei momenti in cui stai lavorando a un progetto, che ti arrivino delle suggestioni e idee sul film che stai facendo. E a volte scopri, con un po’ di amarezza, che altri hanno già fatto cose a cui pensavi di essere arrivato per primo.

Ma quali sono i suoi punti di riferimento?
Sono tanti. La scoperta del cinema come magia, mezzo per raccontare storie, è avvenuta con Fellini. Poi ho scoperto altri maestri, sono passato per Bunuel e Rossellini, Scola e Scorsese. Potrei fare un elenco lunghissimo. La passione non finisce mai e sin da ragazzo l’ho coltivata anche grazie alla Mostra del cinema di Venezia.

Ricorda la prima volta al Lido?
Certo, non posso dimenticarla.  Nel 1986. Ero già studente al Dams di Bologna, ma arrivavo dalla Sardegna dopo le vacanze. Ricordo il viaggio in nave in poltrona, a fine agosto quando c’era il controesodo dei turisti, e quei giorni magici a Venezia con l’accredito culturale. Dormivamo in un campeggio sul lungomare Marconi, la mattina ci alzavamo dalla tenda con un’umidità pazzesca. Quindi le file per entrare in Darsena, i panini mangiati di corsa, i sei film al giorno. E dopo l’overdose giornaliera il film del programma di mezzanotte che in genere era americano, più leggero. Ricordo una visione liberatoria e divertentissima, dopo tanti lungometraggi impegnativi, di Grosso guaio a Chinatown di John Carpenter.

E la prima volta da regista?
Nel 2003, con Ballo a tre passi. Ovviamente ero molto emozionato. Ricordo che volevo prendere parte all’anticipata per la stampa, ma che l’ufficio stampa di allora mi disse era meglio non stessi nemmeno al Lido per non essere scioccato in caso di accoglienza negativa da parte dei giornalisti. Così andai a Venezia, a San Marco. Il film non solo fu accolto bene, ma vinse addirittura il premio della Settimana internazionale della critica. Nel corso degli anni sono tornato più volte e spero che il rapporto speciale con questo grande festival possa continuare anche in futuro.

dal film La notte di San Lorenzo dei fratelli Taviani

 



Fabio Canessa

Viaggio continuamente nel tempo e nello spazio per placare un'irresistibile sete di film.  Con la voglia di raccontare qualche tappa di questo dolce naufragar nel mare della settima arte.

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