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Doppio gioco - Recensione

Una spy-story con Clive Owen ambientata nei sanguinosi anni Novanta dell’Irlanda del Nord, ma che fatica a decollare per via di un cast poco brillante e una sceneggiatura priva di efficacia

Un ottimo documentarista non necessariamente può essere anche un adeguato regista di lungometraggi: il caso James Marsh. Il documentario Man on Wire - Un uomo tra le Torri, che racconta dell’impresa che nel 1974 il funambolo Philippe Petit compì camminando in equilibrio su un cavo tirato tra le Torri Gemelle di New York, si aggiudicò nel 2008 l’Oscar al miglior documentario. Nel 2010 con Project Nim, basato sugli esperimenti linguistici su uno scimpanzé, condotti negli anni Settanta da ricercatori della Columbia University, rivelatisi poi un totale e drammatico fallimento, James Marsh conferma e consolida la sua capacità di raccontare sviscerando tutti gli aspetti di una storia, con dovizia di particolari e capacità 'investigative'. Quando però il regista prende il largo verso il film di finzione, anche partendo da fatti reali e storici come nel caso di Doppio gioco, il risultato è un totale appiattimento sia della narrazione che della resa filmica.
Colette McVeigh (interpretata da Andrea Riseborough) vive a Belfast  con il figlio, la madre e i due fratelli, entrambi legati al movimento terroristico dell’Ira. Anche Colette è all’interno del movimento, ma a causa del fallimento di un attacco alla metropolitana di Londra, verrà catturata ed interrogata dagli agenti segreti del MI5. Qui entrerà in contatto con l’agente Mac (Clive Owen), desideroso di offrirgli una possibilità di libertà, e di conseguenza l’opportunità di stare accanto al proprio figlio, ma in cambio la donna dovrà rivelargli alcune importanti informazioni. Colette, suo malgrado e per amore del figlio, diventa  una spia in casa sua, costretta a venire meno ai suoi 'principi' nonché alla fiducia della sua famiglia. Ma la rete nella quale entreranno sia Colette che l’agente Mac è più complicata ed intricata di quanto i due possano immaginare.
Una spy-story che si rispetti ha bisogno di una buona dose di suspense, thriller ed azione, con dei momenti calibrati di dispiegamento del racconto, evitando di tralasciare dettagli fondamentali che, sparsi qua e là all’interno del film, contribuiscono all’effetto tensione, indispensabile al fine di catturare l’attenzione dello spettatore.

Complice un cast decisamente sottotono e poco brillante, ed una sceneggiatura non particolarmente entusiasmante, ci si chiede se James Marsh non avrebbe fatto meglio a raccontare i fatti dei dolorosi e sanguinosi anni Novanta nell’Irlanda del Nord da un punto di vista differente, sfruttando al meglio la visione ravvicinata di Tom Brady,  sceneggiatore del film, ma soprattutto ex corrispondente proprio in quei luoghi durante le fasi più incisive del terrorismo irlandese in lotta contro il governo inglese.

 

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