Le démantèlement - Recensione
- Scritto da Danilo Bottoni
- Pubblicato in Film in sala
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E’ cattiva abitudine, di certo cinema d’autore, il dilatare la durata delle riprese oltre il tempo necessario per fruire a pieno della scena o della situazione, quasi che la lentezza scaturente da questa scelta possa conferire alla pellicola un’identità stilistica altrimenti assente. Altra pessima abitudine è il mancato lavoro di editing letterario dello script o del girato. E’ così che, spesso, opere con idee o spunti interessanti si trasformano in cilici per il corpo e la vista.
Con Le démantèlement avviene esattamente il contrario. Ogni rarefazione della ripresa, ogni pennellata di colore sui personaggi arricchisce e rende sempre più avvincente e partecipe la narrazione.
Gaby (un immenso Gabriel Arcand, premiato al Torino Film Festival 2013 come miglior attore protagonista) è un allevatore di pecore in un’arcadica fattoria del Québec. La sua vita è scandita dai ritmi della natura di cui sembra essere lui stesso parte integrante. E’ separato e le due figlie, ormai grandi, vivono a Montréal. Quando la maggiore gli chiede un importante aiuto economico per riscattare metà casa dall’ex marito, lui non esiterà a mettere in gioco tutto se stesso e il suo mondo.
La sensibilità con la quale un giovane regista come Sébastien Pilote è riuscito a trattare il tepore esistenziale della senilità, l’amore paterno, la solitudine, l’estraneità tra generazioni, è davvero straordinaria. Le emozioni e i moti dell’animo che attraversano il protagonista a causa della sua forte scelta di smantellare la fattoria, il lavoro di una vita, per aiutare la figlia in difficoltà, sono descritte con grande delicatezza e maestria, attraverso una sceneggiatura che sembra seguire più i pensieri dell’allevatore che lo svolgersi degli eventi. E’ inevitabile restare coinvolti e commuoversi per la forza di questo piccolo eroe dei sentimenti, che si cala coscientemente nel degrado della vecchiaia inutile e abbandonata, in obbedienza a una forza che è più forte di qualsiasi ragione.
Sappiamo che, come lui, finiremo in loculi anonimi e desolati, abbandonati a noi stessi da una prole che non sa che farsene di radici e una società che disprezza e nasconde i tramonti. E sentiamo che è un peccato, una perdita. Così come lo sentiamo per la fine di quel mondo bucolico e inattuale che non può che disgregarsi, frantumato nei piccoli bocconi messi all’asta dall’inesorabile mutamento di un divenire senza memoria e vocato al caos.
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