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Far East Film Festival 2020: il pagellino dei film in programma

La prima storica 'online edition' del Far East Film Festival di Udine raccontata attraverso i giudizi della redazione ai film in programma: una bussola per districarsi tra 46 titoli provenienti da 8 paesi (Cina, Hong Kong, Taiwan, Corea del Sud, Giappone, Filippine, Indonesia e Malesia)







The House of Us, di Yoon Ga-eun (Corea del Sud)



L’estate di una dodicenne che cerca di aiutare un’amica più piccola e la sua sorellina, tristemente abituate a traslocare, e di salvare il matrimonio in crisi dei genitori. Dopo l’ottimo The World of Us, presentato sempre al FEFF, Yoon Ga-eun firma un altro bel film (anche se leggermente inferiore al precedente) su infanzia/adolescenza, confermando grandi capacità nella direzione dei più piccoli. Una regia ad altezza di bambine in tutti in tutti i sensi, nelle scelte di abbassare la camera per inquadrature che spesso tagliano fuori gli adulti e più in generale nella delicatezza dello sguardo sul mondo con i loro occhi. Le dinamiche familiari, con genitori assenti e in crisi coniugale, vengono così vissute attraverso i sentimenti, le percezioni e il dolore della giovanissima protagonista e delle altre due bambine che cercano in un modo anche infantile di mantenere la certezza delle loro case, per fare riferimento al titolo, tra la luce dell’estate e la sua atmosfera di sospensione che prelude al cambiamento. All’accettazione della realtà e di cosa significhi crescere. (Fabio Canessa)

Ashfall, di Kim Byung-seo e Lee Hae-jun (Corea del Sud)



Un kolossal catastrofico con un cast stellare per l'apertura del Far East Film Festival 2020: lavoro che sembra cucito apposta sulla rassegna friulana, un mix ben strutturato di cinema popolare, action e disaster movie. (Massimo Volpe)
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One Night, di Kazuya Shiraishi (Giappone)



Il decimo film di Kazuya Shiraishi, uno dei più interessanti cineasti giapponesi attivi negli ultimi anni, è un dramma famigliare dalle tinte fosche e carico di senso della tragedia. One Night parte con un prologo ambientato nel 2004, quando una donna nel bel mezzo di un temporale e all’interno di un parcheggia investe volontariamente un uomo e lo ammazza. Il morto è il marito violento e brutale della donna che aveva trasformato la vita della famiglia in un inferno tra abusi, violenze e soprusi a carico dei tre figli adolescenti. La donna, in quello che ritiene un atto liberatorio, si consegna e finisce in galera fino a quindici anni dopo, quando torna a casa. Nel frattempo la vita dei figli , indelebilmente segnata da quell’evento, ha preso una via contorta: la femmina è una squillo alcolizzata, uno dei maschi soffre di balbuzie ed ha a sua volta una famiglia che sta andando a rotoli, il terzo sbarca il lunario scrivendo per una rivista porno, pur conservando velleità letterarie. Il ritorno della madre e il confronto tra i membri della famiglia aprirà un doloroso processo di ricordi e di superamento dei traumi, tra ostilità incrociate, rimorsi, accuse reciproche e rancore. Ritmi molto blandi in una storia però che ha corpo, sa essere drammatica nelle sue tematiche, esplora le dinamiche di una famiglia disfunzionale avviata alla distruzione, ma al tempo stesso ne esalta la forza ancestrale dei legami  e la necessità di elaborare i traumi del passato. Shiraishi si dimostra osservatore attento di realtà sempre al limite, come nel recente The  Blood of Wolves o nel bellissimo Birds Without Names, con particolare riguardo alle dinamiche interpersonali, peccando in questo One Night solo nella scelta finale di concludere la storia in maniera un po’ troppo frettolosa. (M.V.)

Dance With Me, di Shinobu Yaguchi (Giappone)



Una donna in carriera che lavora in un’importante società viene ipnotizzata e ogni volta che sente della musica non può fare a meno di cantare e ballare. Per trovare una soluzione va alla ricerca dell’ipnotizzatore che gira il Paese con i suoi spettacoli. Yaguchi, che tre anni fa aveva aperto il FEFF con il riuscito Survival Family, è sceneggiatore dalle buone idee e regista di mestiere nella messa in scena al servizio della narrazione. Sempre originale, in questo caso si cimenta con un genere particolare come il musical. Presenti quindi diverse sequenze di canto e di danza, godibili e senza troppe esagerazioni nelle coreografie. Un lavoro simpatico e colorato, ma che rischia di annoiare un po’ chi non ama i film musicali. Anche perché la spinta comica non è così irresistibile, a parte alcune situazioni particolarmente divertenti, e tutta la storia appare troppo semplice nelle intenzioni e nel suo sviluppo, incentrata com’è sul percorso di consapevolezza della protagonista. Curiosità: tra le canzoni utilizzate nel film da segnalare Yume no naka e (una delle sigle dell’anime Le situazioni di Lui & Lei). (F.C.)

Wotakoi: Love is Hard for Otaku, di Yuichi Fukuda (Giappone)



Lui appassionato di videogiochi, lei di fumetti yaoi. Amici d’infanzia si ritrovano a lavorare nella stessa azienda e cominciano a uscire insieme. Tratto da un webmanga già diventato un geniale e divertentissimo anime, il film diretto da Fukuda non smentisce la regola che vede i live action quasi mai all’altezza delle versioni originali cartacee e animate. Anzi, l’adattamento è ancora sotto la media dei prodotti del genere. E questo già dice molto. Girato in stile dorama perde tutta la freschezza, la brillantezza dell’opera da cui è tratto. Le situazioni comiche ricreate nel film non hanno minimamente la stessa carica esilarante, i protagonisti sono abbastanza fastidiosi e vengono trattati con meno attenzione gli altri personaggi che nella serie sono invece importanti. Le cose aggiunte, in particolare gli inserti da musical, non fanno che peggiorare la visione. Difficile da completare già dopo aver visto soltanto i minuti iniziali. Il consiglio, per chi non la conosce, è andarsi a vedere la deliziosa serie animata (disponibile su Amazon Prime Video). (F.C.)

Detention, di John Hsu (Taiwan)



Dietro la livrea di film horror Detention, opera prima del taiwanese John Hsu, veicola una potente riflessione su uno dei periodi storici più drammatici di Taiwan, il Terrore Bianco che attanagliò l’isola per quasi 40 anni in una morsa tirannica spietata che si basava sulla legge marziale e che portò alla morte di migliaia di persone, quasi sempre accusate ingiustamente di attività sovversive in combutta coi comunisti della Repubblica Popolare Cinese. In una scuola che sembra in rovina, due ragazzi rimangono intrappolati durante la notte, impossibilitati ad abbandonarla. I grandi edifici però conservano al loro interno le memorie di un episodio avvenuto appunto durante il periodo del Terrore Bianco, quando un gruppo di studenti guidati da due insegnanti costituirono un gruppo che si dedicava alla lettura e alla salvaguardia di testi ritenuti sovversivi. Attraverso salti temporali, incubi, paure che diventano tangibili, Hsu racconta questa storia di fantasmi assetati di sangue ma anche di rancori e di rimorsi, immersa in una critica feroce del periodo storico che portò la delazione come metodo per salvaguardare se stessi e risolvere le questioni personali. La storia del gruppo segreto e le vicende personali si intrecciano in una pellicola che svolge bene la sua funzione sia come film horror che come denuncia storica che serva da lezione imperitura per le nuove generazioni. Il regista ha mano ferma per tenere in piedi entrambi i filoni del film strutturato in due capitoli ed un epilogo ai giorni nostri, ben coadiuvato da un valido cast e da una ricostruzione storica ben strutturata: forse a qualcuno Detention potrà sembrare un ibrido tra Whispering Corridors e l’ ultimo filone dell’horror taiwanese di Tag-Along, ma il messaggio politico e sociale contenuto ne fa un’opera che brilla per originalità. (M.V.)

The White Storm 2: Drug Lords, di Herman Yau (Hong Kong, Cina)



Lavoro di stampo antico hongkonghese, The White Storm 2: Drug Lords di Herman Yau è un buon film ricco di azione e di momenti spettacolari con rimandi ai canoni classici del genere. (M.V.)
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A Beloved Wife, di Shin Adachi (Giappone)



Sceneggiatore sfigato convince la moglie, esasperata dai suoi fallimenti, ad accompagnarlo per un viaggio utile a sviluppare un nuovo soggetto. Partono così in vacanza insieme alla figlia. Un ritratto di famiglia, dal punto di vista formale poco ricercato, che come raccontato dal regista nel saluto di presentazione si basa su esperienze reali del suo matrimonio. “I personaggi rappresentati ci rispecchiano quasi in tutto” dice Adachi e dalla visione traspare la sincerità del film, pur nell’esagerazione, voluta, nella caricatura dei personaggi stessi. Lui immaturo, un po’ sfaccendato e con il chiodo fisso del sesso per il quale invece la moglie, scontrosa e mai gentile nei suoi confronti, ha perso interesse. La descrizione della quotidianità, delle dinamiche familiari nella loro semplice complessità, assume così toni abbastanza grotteschi, con momenti molto divertenti che non diminuiscono il valore della riflessione su cosa significhi convivere per tanto tempo. In fondo, riprendendo ancora le parole del regista nella presentazione al pubblico di questo FEFF online “il solo descrivere l’arduo viaggio che ogni coppia affronta è fonte di storie interessanti”. Il cinema lo ha spesso dimostrato. (F.C.)

Chasing Dream, di Jonnie To (Cina)



Dopo tre anni di assenza, evento piuttosto atipico per lui, Johnnie To torna alla regia con un lavoro che sembra voler ricalcare in qualche modo i passi di Office, lontano quindi dal genere che ha reso il regista famoso in tutto il mondo. Johnnie To non è nuovo a divagazioni nell’ambito della commedia o del melodramma, quindi Chasing Dream è pellicola che richiama alcune delle precedenti con in aggiunta il musical (o forse più propriamente il musicarello tanto in voga in Italia negli anni '60-70), appunto come fu con Office. Il racconto si impernia su due giovani, diversissimi ma nell’intimo assolutamente uguali: due persone che inseguono un sogno e che pur tra mille difficoltà vogliono raggiungerlo a tutti i costi. Lui è un pugile che lavora per un gangster e che al di fuori dal ring va a riscuotere a suon di botte i debiti contratti con la gang, lei è un'aspirante cantante, con un passato recente di grosse delusioni e che sbarca il lunario in varie maniere. I due si ritrovano a combattere fianco a fianco per raggiungere il proprio obiettivo che diventa però ben presto anche l’obiettivo dell’altro. Romance, commedia, melodramma e un potente invito ad inseguire i propri i sogni fino alla fine fanno di Chasing Dream un lavoro per molti versi convenzionale, addirittura ovvio, ma di certo ben girato, ricco di buoni sentimenti, nel quale il messaggio a non mollare mai è il filo conduttore. Grande merito della riuscita del film va ascritto alla presenza dei due attori protagonisti: Keru Wang e Jacky Heung, cantante lei e pugile lui, entrambi credibili. Nei rispettivi ruoli. (M.V.)

Crazy Romance, di Kim Han-kyul (Corea del Sud)



Cosa dire di un film coreano in cui si parla di amore (ma non solo) e per la gran parte del tempo i protagonisti sono ubriachi? La situazione ideale per tirare fuori un film di sicuro successo e di divertimento certo, anche se venato di note malinconiche. Crazy Romance è l’opera prima della regista Kim Han-kyul e racconta la vita di due trentenni reduci entrambi da una delusione amorosa che si ritrovano a lavorare assieme in una compagnia di pubblicità. Lui è praticamente quasi sempre ubriaco da quando la ragazza lo ha mollato sull’altare, beve e non ricorda il giorno dopo quello che è successo, lei ha alle spalle una storia finita a rotoli e un fidanzato che ancora cerca di mettere una pezza alla loro relazione, anche lei beve che è una bellezza e quindi si può facilmente immaginare la piega che prende il film quando si confrontano i due seduti al tavolino e con il soju davanti. A parte il contesto che pone le basi per la parte più brillante, il film indaga i meccanismi dell’amore e delle relazioni sentimentali attraverso le storie dei due protagonisti ma anche degli altri personaggi di contorno, getta uno sguardo critico sul mondo del lavoro e sul duro a morire maschilismo coreano e mette in guardia sul considerarsi privi di scheletri negli armadi: nessuno, a maggior ragione nell’epoca della Rete che raccatta tutto, può considerarsi al sicuro dai pettegolezzi e dalle diffamazioni. Il film è divertente, si poggia molto su dialoghi a tratti esilaranti, si nota lo sguardo femminile, soprattutto nella bella dose di sarcasmo con cui disegna certa comportamenti ed il cast è di buon livello capeggiato da una formidabile Kong Hyo-jin, la regina delle rom-com coreane. (M.V.)


Victim(s), di Layla Zhuqing Ji (Malesia)



Durissimo film, a tratti disturbante, sul fenomeno del bullismo raccontato e osservato però con uno sguardo ben lontano dall’essere categorico, Victim(s) della giovane regista cinese esordiente Layla Zhuqing Ji si ambienta in Malesia, chiara ed ovvia scelta della produzione per evitare i rischi della censura cinese come avvenne a suo tempo, poco prima, a Better Days di Derek Tsang, che trattava simili argomenti. Un giovane viene ucciso a coltellate e altri due feriti gravemente nei pressi della scuola che frequentano. Le telecamere sulla strada riprendono la scena e i sospetti ricadono su Chen, il miglior alunno della classe, figlio di una ricca imprenditrice, che subito dopo l’omicidio sparisce. Sarà l’inizio di un lungo confronto tra la madre del ragazzo morto e quella del sospetto assassino, il quale poco dopo si costituisce e finisce in galera dopo il processo. In un lungo segmento centrale che funge da flash back vediamo come nella scuola si siano messe le premesse affinché accadesse il fattaccio: bullismo, violenze, connivenze, omertà e soprattutto una miopia degli insegnanti della scuola nell’osservare quanto accade al suo interno. Per la regista un po’ tutti sono vittime e carnefici, al punto che i due estremi tendono a sfumare e per tale motivo racconta la storia con varie prospettive senza la pretesa di giudicare, ma bensì di capire come simili tragedie possano avvenire sotto gli occhi di tutti e come una informazione ormai appestata da Internet corra dietro alla ricerca del colpevole senza cercare di capire neppure minimamente dove sta la verità. Seppur in un film duro, cattivo e molto cupo, lo squarcio finale di luce sembra lasciare qualche speranza, veicolata dalle figure femminili della storia. Bravissima Huang Lu, all’ennesima prova di grandissimo spessore. (M.V.)

Beasts Clawing at Straws, di Kim Yong-hoon (Corea del Sud)



Vincitore del Premio Speciale alla Regia al Rotterdam Film Festival, l’opera prima di Kim Yong-hoon Beasts Clawing at Straws è uno di quei thriller atipici che sparge i fili narrativi apparentemente a caso e a questi lo spettatore deve attaccarsi per rimetterli nella giusta posizione, inseguendo colpi di scena e contorsioni da acrobati. Inoltre sulla struttura da thriller, che ha i suoi ben individuabili modelli, si innestano momenti di autentica commedia nera ricche di sarcasmo e di humour nero. Una borsa piena di soldi, un gruppo di personaggi quasi tutti spregevoli nella loro miseria etica ma assetati di denaro per i motivi più disparati che in qualche modo sono fra loro connessi, seppur a volte tangenzialmente, i quali vogliono arraffare quella borsa di Louis Vitton carica di soldi come vediamo nella primissima: su questo nucleo gira tutta la storia raccontata nel film. Seguendo percorsi che giocano con il tempo e con la linearità del racconto, il film si trasforma insomma in una sorta di sfida al massacro dove praticamente non esistono regole, dove tutti sono contro tutti e dove trionfa la cattiveria e l’idiozia. E se per la struttura a capitoli il rimando non può che essere Tarantino, per la bassezza morale e l’autentica idiozia la gran parte dei personaggi sembra uscita da un film dei fratelli Coen. I personaggi sono comunque tutti vividi, in particolare quello della femme fatale interpretato dalla divina Jeon Do-yeon che come compare sullo schermo fa cambiare decisamente marcia al racconto, il ritmo è serrato, l’indagine sulle bassezze umane e sul valore dei soldi è ben costruita e alla fine (ma sarà finito veramente?...) quella borsa troverà un proprietario in una maniera che appare coerente e non forzata. Oltre alla citata Jeon il cast è di altissimo livello (cosa impensabile altrove per un esordiente) e concorre a rappresentare una degna carrellata di miserie umane. (M.V.)

Ip Man 4 : The Finale, di Wilson Yip (Hong Kong, Cina)



Spalmata sull'arco di 11 anni la saga in quattro capitoli incentrata sulla figura del leggendario maestro Ip Man giunge al termine: il regista Wilson Yip, l'indiscusso architetto dell'epopea cinematografica, con Ip Man 4: The Finale affronta infatti l'ultimo capitolo temporale della vita dell'inventore del Wing Chun, ormai ineluttabilmente legato alla figura di Donnie Yen che lo interpreta in tutti i capitoli. E’ un Ip Man vecchio, malato gravemente e alle prese coi problemi di ribellione del figlio che vorrebbe intraprendere lo studio delle arti marziali mentre il padre vede per lui un futuro in America con una solida istruzione. Giunto a San Francisco per ottenere dal presidente della potente comunità cinese la raccomandazione per il figlio, Ip si trova a dovere far fronte all’avversione dei suoi connazionali verso di lui in seguito alle gesta del suo allievo Bruce Lee, considerato irrispettoso delle tradizioni del kung-fu. La battaglia di Ip Man stavolta sarà contro il becero razzismo verso i cinesi nelle forze armate da parte degli americani. Capitolo più intimo dove non mancano comunque i tanto attesi momenti di action (diretti da Yuen Woo Ping) che sono anche stavolta molto ben strutturati e finale nostalgico nei titoli di coda con un richiamo ai precedenti capitoli della saga e giusta decisione del regista di consolidare e rendere imperituro il mito di Ip Man, maestro e uomo virtuoso. (M.V.)

Minori, on the Brink, di Ryutaro Ninomiya (Giappone)



Una ragazza carina, stanca di tutti coloro che s’interessano a lei solo per l’aspetto, è sempre arrabbiata nei confronti di chiunque. Difficile dire di più per introdurre questo film che sorprende un po’ trovare nel programma del FEFF, in larga parte dedicato a un cinema popolare al quale non appartiene il lavoro di Ninomiya. Opera indipendente che colpisce per la forma. La scelta del formato 4:3, di usare la camera a mano, si vede un leggero traballio anche nelle inquadrature fisse, l’assenza di musica, l’utilizzo di piani sequenza di diversi minuti, lunghe conversazioni tra i personaggi (un po’ alla maniera di Hong Sang-soo) senza servirsi mai del classico campo-controcampo ma riprendendo i dialoghi soprattutto con piani semi totali, alternati a medi e a volte americani. Semplice esercizio di stile? Il dubbio va avanti durante la visione, certi momenti possono risultare estenuanti, eppure il film lascia un’impressione duratura. Si continua a pensare a lungo dopo la fine al suo atteggiamento femminista, rappresentato dalla schietta protagonista Minori, a certi scambi di battute tra i personaggi, al senso di vuoto e di impossibilità a cambiare le cose che trasmette, all’atmosfera generale che si nutre dell’ambientazione nella città costiera di Kamakura. (F.C.)

Better Days, di Derel Tsang (Cina)



Derek Tsang torna ad affrontare il tema dell'adolescenza e del passaggio alla vita adulta, arricchendolo però della terribile prospettiva del bullismo nelle scuole (e non solo). Grande successo di critica per un lavoro che avrebbe potuto essere ancora di qualità superiore se nel finale non avesse perso lo smalto migliore. Vincitore di nove premi ai 39esimi Hong Kong Film Awards. (M.V.)
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Changfeng Town, di Wang Jing (Cina)



Scorci di vita quotidiana di un'immaginaria cittadina della provincia rurale cinese chiamata Changfeng, in un'indefinita epoca passata (che potrebbe essere gli anni Settanta-Ottanta). Il punto di vista è quello di una voce narrante che ripercorre un pezzo di adolescenza trascorsa al fianco di un gruppo di ragazzini, il cui principale passatempo è dedicarsi a piccoli dispetti quotidiani mentre entrano in contatto con un mondo degli adulti indaffarato ma senza reali prospettive. Scritto, diretto e montato da Wang Jing (qui al suo terzo lavoro dopo una collaborazione come aiuto regista di Jia Zhang-ke), Changfeng Town è un affresco di vite e luoghi in un mondo sospeso che sembra attendere un cambiamento, una svolta che non arriva mai. Un film personale che riesce nella scommessa di raccontare con le armi del realismo e della suggestione la memoria di un vissuto dimenticato di quelle comunità remote in cui la modernità è solo un'eco del mondo esterno (non a caso molte scene sono ambientate in una sala cinematografica in cui vengono proiettati wuxiapian e film occidentali: il cinema come finestra sul mondo, in questo Changfeng Town ha alcuni punti in comune con Nuovo cinema paradiso). Tra i fotogrammi si insinua il sospetto di una predilezione per un certo gusto estetico europeo (nella sensibilità con cui prendono vita i personaggi ma anche nell'uso del commento sonoro), con varie strizzatine d'occhio al cinema classico d'autore (soprattutto a François Truffaut e al suo capolavoro I 400 colpi, esplicitamente citato), cosa che in parte stride con il contesto in cui è calato il racconto a cui forse serviva maggiore peculiarità, ma per fortuna la regista si ferma sempre un attimo prima di trasformare la sua cinefilia in una mera esibizione di stile. Wang Jing è sicuramente un nome da seguire in futuro. (Francesco Siciliano)

Cheerful Wind, di Hou Hsiao-hsien (Taiwan)



Era una delle chicche del programma del Far East Film Festival 2020: il restauro di uno dei primissimi film del maestro Hou Hsiao-hsien, proposto in anteprima internazionale nella sezione Classici Restaurati. Una visione utile per comprendere meglio il percorso artistico di uno dei maestri del cinema moderno e la specificità cinematografica del Nuovo Cinema Taiwanese, nonostante si tratti di un film con pochi pregi che rischia di disattendere le aspettative degli estimatori dell'autore. Uscito nel 1981, Cheerful Wind è soprattutto la testimonianza di cos'erano Hou e molto cinema taiwanese prima del rinnovamento stilistico e narrativo con l'arrivo pochi anni dopo di The Sandwich Man, film spartiacque nella carriera del regista e punto di inizio della New Wave. Dalla scelta degli attori (tre idoli della musica pop) allo stile della messa in scena (con molte concessioni alle tecniche più in voga all'epoca, come l'uso insistito dello zoom) alla declinazione di stereotipi narrativi (in primis la complessità dei sentimenti), tutto di Cheerful Wind sembra andare nella direzione di un modello di cinema commerciale che cercava il successo al botteghino (cosa che peraltro Hou ottenne durante il Capodanno Lunare) con storie di facile presa (il film racconta l'improbabile nascita di un amore tra una fotografa e un uomo cieco che incrociano i loro destini su un set) in cui il pubblico potesse facilmente trovare evasione dalla realtà. Insomma tutto il contrario di quello che poi Hou fece a partire da The Sandwich Man: quando il regista iniziò a mettere al centro del suo universo filmico l'analisi delle esperienza di vita individuale con un linguaggio unico fondato sul rispetto del reale in un dialogo tra passato e presente. (F.S.)

I WeirDO, di Liao Ming-yi (Taiwan)



Un ragazzo affetto da DOC, disturbo ossessivo compulsivo, non può fare a meno di continuare a pulire e sanificare regolarmente il proprio appartamento dove lavora come traduttore ed esce raramente soltanto per fare la spesa, perfettamente protetto. Un giorno al market incontra una ragazza che soffre della stessa patologia. In breve tempo decidono di convivere. Lavoro da casa, mascherine, disinfettanti, lavaggio continuo delle mani. L’esperienza globale della pandemia ci avvicina in qualche modo ai due protagonisti che reggono tutto il film (pochi e comprimari gli altri personaggi), una commedia strambo-romantica più profonda di quanto possa apparire inizialmente. Una riflessione sui sentimenti e i rapporti umani fondati più su una facile condivisione vicina all’egoismo che su una reale apertura nei confronti degli altri e accettazione delle differenze. La patologia è così un espediente narrativo che dal punto di vista formale si avvale della scelta di utilizzare due formati differenti: nella prima parte uno verticale, da schermo iPhone, e nella seconda, quando la scoperta della 'normalità' rompe l’equilibrio, un classico 16:9. A questo si accompagna un’apprezzabile cura estetica nella scelta dei colori, dal punto di vista dei costumi e delle scenografie. (F.C.)

Kim Ji-young: Born 1982, di Kim Do-young (Corea del Sud)



Tratto dal romanzo dal titolo omonimo di Cho Nam-joo, autentico fenomeno letterario non solo in Corea e assurto in breve tempo a manifesto femminista contro le discriminazioni di genere della ipermaschilista società sudcoreana, Kim Ji-young: Born 1982 della regista esordiente Kim Do-young è stato di pari passo uno dei film più di successo, di critica e di pubblico, del 2019 nella stessa Corea del Sud. Limitarne il significato al solo aspetto di critica sociale costituisce però un errore di sottovalutazione del film, perché al suo interno ci sono diverse altre tematiche, prima tra tutte quella della malattia mentale. Kim Ji-young è una donna sposata, ha un marito premuroso e una figlia avuta da poco tempo, motivo per il quale ha dovuto abbandonare il lavoro per dedicarsi alla cura della bambina. Nonostante tutto sembri andare nel verso giusto, nell'animo della donna alberga la delusione per l'abbandono del lavoro e al contempo l'oppressione sia della famiglia del marito che della propria, famiglie tradizionali, improntate ad un machismo persino violento e a un ruolo meramente marginale della donna. Inoltre Kim Ji-young inizia a mostrare strane alterazioni comportamentali che fanno pensare ad un problema psichiatrico. Tutto il lavoro di Kim Do-young viaggia sul doppio binario della denuncia sociale e del disagio mentale, motivo per cui, come si diceva poc'anzi, è altamente limitativo considerarlo solo un film di denuncia sulla condizione femminile in un paese che riguardo alla parità dei sessi è ancora piuttosto indietro, a causa essenzialmente di una tradizione fortemente patriarcale. Il lavoro della regista coreana è film equilibrato, mai urlato, mai eccessivo anche nei momenti di più alta drammaticità, costruito su bei personaggi che rapiscono subito dal punto di vista empatico quali sono la protagonista ed il marito. La pellicola, per il resto bella e ricca di pathos, presenta un solo grosso difetto: il finale francamente troppo sbrigativo, specialmente nella risoluzione del problema della protagonista, quasi un colpo di spugna che repentinamente spazza i fantasmi e i dolori. (M.V.)

The Man Standing Next, di Woo Min-ho (Corea del Sud)



L’omicidio di Park Chung-hee, tirannico presidente della Corea del Sud per svariati decenni, per mano del Direttore del potentissimo KCIA, avvenuto il 26 ottobre del 1979 e i quaranta giorni che lo precedettero sono il lasso di tempo in cui si volge il racconto di The Man Standing Next, ispirato, come prudentemente precisa il regista nei titoli di testa, a fatti veri in cui alcuni aspetti sono stati elaborati dal punto di vista narrativo. La sostanza, comunque, è quella che il lavoro di Woo Min-ho è un film che sta a metà strada tra lo storico e il thriller spionistico, con un intrigo piuttosto articolato, di cui conosciamo sì la fine ma molto meno le dinamiche che portarono il capo del KCIA a premere il grilletto contro il Presidente della Corea. Il direttore della KCIA è inviato in America per cercare di risolvere un problema che può diventare pericolosissimo per Park: l'ex capo del KCIA stesso sta per rendere pubblico un memoriale che inchioda il presidente dimostrando le sue malefatte, compreso lo storno di ingenti cifre di denaro verso la Svizzera, che dimostrerebbero come sia di fatto il traditore della Rivoluzione da lui stesso promossa 16 anni prima. Il film sarà un lento processo di allontanamento di Kim da Park e l'insorgere di una coscienza che lo porta a considerare il presidente un traditore dello spirito originario della rivoluzione che lo condusse al potere. Parlare di un thriller spionistico sapendo come andrà a finire potrebbe effettivamente sembrare un esercizio di vacuità cinematografica, ma Woo è riuscito con alcune scelte di regia a far sì che più che l'epilogo della storia è la sua prospettiva e le sue angolature narrativa a permettere che l'interesse non scemi mai durante la visione. Cast di primo livello con il divo Lee Byung-hun bravissimo nella parte del direttore Kim, soprattutto sempre in armonica sintonia con i tormenti del personaggio, Lee Sung-min, sfruttando anche un certa somiglianza con il vero Park, è bravo nel rappresentare le ossessioni che agitano il presidente e il suo smisurato potere e per finire Kwak Do-won è bravo e credibile nei panni dell'ex direttore del KCIA pronto a svuotare il sacco contro Park. (M.V.)

Exit, di Lee Sang-geun (Corea del Sud)



Ecco un disaster movie made in Corea del Sud come a Hollywood non sanno più fare. Siamo a Seoul: mentre in una sala ricevimenti sono in corso i festeggiamenti per il compleanno di una donna che per celebrare i suoi settant'anni ha deciso di organizzare una grande festa con la sua famiglia, un attentato terroristico trasforma una serata come altre in un incubo. Una nuvola di gas tossico inizia a diffondersi in gran parte della città, seminando il panico tra la gente. L'unico modo per mettersi in salvo è cercare di salire sul tetto dei grattacieli e attendere che i soccorsi con l'elicottero inizino a effettuare le evacuazioni. Yong-nam, il figlio della donna di cui si celebra il compleanno, un ragazzo tartassato da un po' tutta la sua famiglia che lo reputa uno sfigato e un nullafacente per non aver ancora trovato un impiego, sfrutterà le sue doti di scalatore di montagna, arrampicandosi a mani nude sui muri di palazzi e grattacieli, per trovare varchi e condurre in salvo, con l'aiuto di una sua ex fiamma, i partecipanti al ricevimento. Premiato come miglior regista esordiente ai Blue Dragon Awards (sorta di Oscar sudcoreani), Lee Sang-geun si cimenta con una delle specialità che hanno fatto la fortuna del cinema d'evasione coreano negli ultimi anni: scandagliare i rapporti familiari di fronte a una calamità che ne mina i legami, con un sincretismo sorprendente di azione, umorismo e mélo. Il suo debutto, che ha potuto contare sull'aiuto produttivo di un nome importante come Ryoo Seung-wan, altro non offre che un sano intrattenimento mozzafiato, abile a sfruttare terribilmente bene uno dei canovacci intramontabili del disaster-movie hollywoodiano, ovvero la corsa a ostacoli contro avversità apparentemente insormontabili in cui alla fine emergerà inaspettatamente il valore della persona più improbabile di tutte. Il riscatto umano ma soprattutto familiare di Yong-nam passa attraverso una sequela di situazioni cariche di tensione emotiva che mescolano comicità e azione grazie a un utilizzo sapiente di scene acrobatiche e all'ottima alchimia di un cast ben assortito nonostante alcuni membri del cast abbiano background diversi (il protagonista Jo Jung-suk è un divo del piccolo schermo, mentre Im Yoon-a, nei panni dell'ex fidanzata che lo accompagna in quasi tutte le scene, è un idolo del K-pop). E pazienza se dobbiamo chiudere un occhio sulla regia un po' di servizio e su un epilogo che mette a dura prova la sospensione di incredulità nella lunga lotta per la sopravvivenza di Yong-nam: il film riesce comunque a ripagarci tenendoci incollati alla poltrona dall'inizio alla fine come capita di rado. (F.S.)

I'm Really Good, di Hirobumi Watanabe (Giappone)



La quotidianità della piccola Riko raccontata attraverso una sua giornata tipo: la sveglia, la scuola, la migliore amica, il fratello, i compiti a casa e il gioco, sino al momento di addormentarsi. Il nuovo film di Watanabe, presentato in anteprima mondiale al FEFF, è un piccolo (dura poco più di un’ora) e delizioso film costruito su una bambina, Riko Hisatsugu, già presente in altri lavori del regista e qui promossa protagonista. Minimalista e dalle scene dilatate come da caratteristica del cinema di Watanabe, costruito con inquadrature fisse nelle scene in interno e largo utilizzo della camera a mano in esterno per un bianco e nero 'solare' che aiuta a portare lo spettatore in una dimensione sospesa. Alla spensieratezza, alla serenità rappresentata dalla routine di Riko che la magia del cinema ci fa vivere anche come un personale viaggio nel tempo. Un senso di pace, lontano dal mondo adulto, rotto soltanto da elementi di disturbo esterni come possono essere le notizie politiche che si sentono in sottofondo e l’ingresso in scena di un venditore porta a porta, interpretato dallo stesso Watanabe, che da una parte danno un tocco bizzarro al film e dall’altra sembrano ricordarci che l’età dell’innocenza è breve. (F.C.)

Cry, di Hirobumi Watanabe (Giappone)



La settimana di un allevatore di maiali. Bastano poche parole per presentare questo film di Watanabe che esemplifica la sua idea di cinema non convenzionale. E in questo caso ancora più radicale. Cinema non narrativo, in bianco e nero (che qua appare più saturo rispetto agli altri film), si spinge in Cry sino ad abolire i dialoghi per un racconto fondato sui gesti ripetitivi del porcaro protagonista che è interpretato dallo stesso regista: la colazione con la nonna, la cura dei maiali nella fattoria, il pranzo all’aperto, il percorso a piedi per tornare a casa, la cena e un po’ di relax con qualcosa da leggere. Non per questo bisogna confondere con un documentario il film, accompagnato da una colonna sonora della quale rimane in testa il suono ricorrente dei taiko (i tamburi giapponesi) e costruito con efficaci piani sequenza realizzati con camera a mano nelle riprese sul lavoro e nelle camminate, alternati a inquadrature fisse nei momenti di pausa e dedicati al cibo. Uno sviluppo scandito con i giorni della settimana, tutti uguali tranne la domenica quando l’allevatore va al cinema. Sullo schermo le immagini di un altro lavoro di Watanabe (una scena del successivo I'm Really Good) con il personaggio che finisce ironicamente per addormentarsi. (F.C.)

Life Finds a Way, di Hirobumi Watanabe (Giappone)



Un regista in crisi creativa non riesce a procedere con la nuova sceneggiatura. Nel frattempo osserviamo la sua vita ordinaria scorrere tra videogiochi, l’interesse per i Mondiali di calcio, telefonate, visite in biblioteca, spostamenti in macchina. Proprio le lunghe scene in auto sono tra le più rappresentative: il regista, lo stesso Watanabe, si lascia andare a lunghi monologhi al fianco dell’impassibile amico alla guida. Autoreferenziale, divertente, grottesco, sarcastico nella sua riflessione metacinematografica che va a toccare gli aspetti produttivi come la difficoltà a trovare i fondi per gli autori indipendenti, dall’idea del crowdfunding alla richiesta di sostegno da parte delle istituzioni, sino al rapporto con il pubblico in un’indovinata sequenza di interviste. Sempre con tanta autoironia, esemplificata dalle risposte che una bambina (la stessa poi protagonista di I’m Really Good) dà alle domande sul suo regista e attore preferiti: Hirobumi Watanabe, prima di rivelare che è stato lui stesso a chiedergli di dire così. Mai banale la colonna sonora, con il solito contributo del fratello musicista Yuji e in questo caso della band post punk Triple Fire. Un geniale 8 ½, il film più apprezzato tra quelli del bel focus dedicato al cinema di Watanabe. (F.C.)

Party ‘round the Globe, di Hirobumi Watanabe (Giappone)



Due amici vanno in auto a Tokyo per un concerto di Paul McCartney. Uno è logorroico, l’altro silenzioso e impassibile di fronte ai monologhi del suo compagno di viaggio. Di quest’ultimo, mentre il film avanza, viene raccontata la triste esistenza. La narrazione procede così su due versanti. Il primo, quello con i due personaggi in macchina, con il solito umorismo di Watanabe perfettamente a suo agio come attore comico. L’argomento principale qua è la musica, i Beatles e Bod Dylan. Più che le parole libere di questo fan, che non si cura minimamente dell’assoluta indifferenza di chi gli sta a fianco, è proprio la situazione surreale a strappare il sorriso. Il secondo versante mostra la vita del personaggio solitario, con una sensazione alienante di passività e l’eco di tragedie da varie parti del mondo mentre ascolta la radio. Ancora una volta elementi ricorrenti, un’idea di ripetitività per un cinema che può sembrare estenuante eppure risulta sempre più affascinante man mano che si scopre la filmografia di questo regista. La sua precisa poetica. Grazie al FEFF di avercelo fatto conoscere con questo omaggio. (F.C.)


#HandballStrive, di Daigo Matsui (Giappone)



Daigo Matsui ritorna al Far East Film Festival dopo lo stravagante Afro Tanaka, commedia ridanciana con la quale il regista debuttò nel 2012, riscuotendo un discreto successo al suo passaggio a Udine. Con #HandballStrive, Matsui ci racconta la storia di un gruppo di ragazzini che trovano nell'utilizzo dei social network una via di fuga da una realtà traumatica, segnata da un terribile terremoto (realmente accaduto nel 2016 a Kunamoto, nel sud-ovest del Giappone, città in cui è ambientato il film) che ha devastato le loro vite, costringendoli a perdere la casa in cui vivevano e soprattutto la spensieratezza dell'adolescenza. Una foto lanciata su Instagram che ritrae Masao, uno dei componenti del gruppo, far finta di giocare a pallamano, dà il via a un'escalation virale che, like dopo like, follower dopo follower, spingerà i ragazzini a creare una vera squadra per accontentare gli appetiti dei loro followers. Il problema è che l'unico interesse di Masao e compagni sembra quello della popolarità sui social: nessuno di loro vuole davvero impegnarsi nella pallamano, ma fino a quando potranno nascondere le reali intenzioni? Tema complesso quello scelto da Matsui: l'elaborazione di un trauma attraverso la lente di ingrandimento del rapporto tra gli adolescenti e l'utilizzo dei social network come strumento di rifugio dalle difficoltà della vita reale. In un continuo e ideale campo-controcampo tra essere e apparire, realtà e simulacri virtuali, il film non sembra calibrato a dovere per andare a fondo delle questioni di cui si fa carico mostrando un'adolescenza afflitta e smarrita. La realizzazione non è al passo con le ambizioni: lo scavo nell'attualità dei social è superficiale, il ritmo del racconto è piatto e senza slanci, la macchina da presa non riesce a catturare il silenzioso tormento di persone segnate da un dramma collettivo. Inespresso. (F.S.) 

An Insignificant Affair, di Ning Yuanyuan (Cina)



2008, in qualche cittadina cinese tranquilla e molto tradizionale, due adolescenti vengono scoperti mano nella mano nel cortile scolastico. Non c’era nulla di malizioso in quel gesto perché i due parlavano di chiromanzia, ma le rigide regole scolastiche impongono ai due di fare pubblica autocritica, come se il tempo non fosse passato e ancora fossimo ai tempi della Rivoluzione Culturale. I due, che forse neppure ci pensavano, si trovano ad essere catalogati come fidanzati e quindi in chiaro contrasto con le regole della scuola. Il problema è che a forza di parlarne e di declamare autocritiche i due si scoprono realmente vicini e attratti da una certa simpatia: lui He Xiaoshi, classico bambinone in epoca di ribellione seppur innocente a scuola zoppica e in famiglia è in perenne contrasto col padre, lei Lin Xiaoyu invece è la genietta della classe, entrambi però vivono quel periodo della vita in cui non si hanno certezze tanto meno sui sentimenti e sulle scelte da compiere. Spesso An Insignificant Affair, seguendo un canovaccio da coming of age, si colora di toni surreali, addirittura da commedia dell’assurdo, soprattutto per l’accanimento col quale i due ragazzi vengono perseguitati, e getta uno sguardo un po’ ingenuo forse e anche scolastico cinematograficamente, ma le atmosfere e i personaggi funzionano bene, su una storia di amore giovanile che si scontra col conformismo scolastico e con le regole tradizionali della famiglia e della società. I pochi difetti del film vanno perdonati alla giovanissima ventiduenne regista e anche attrice protagonista, Ning Yuanyuan, figlia del grande Zhang Yuan e della sceneggiatrice Ning Dai, che per la maturità mostrata nel sapere tenere in mano il film conferendogli anche uno stile molto accattivante, merita di essere attentamente seguita, perché sembra proprio che buon sangue non mente... (M.V.)

Suk Suk, di Ray Yeung (Hong Kong)



In una Hong Kong che richiama le ambientazioni e i colori del vecchio cinema dell’ex colonia, Suk Suk racconta la storia d’amore di due maturi signori: Pak, un tassista ormai vicino alla pensione, sposato con una di quelle vecchie donne amanti della tradizione e due figli grandi, uno dei quali sposato con una figlia e l’altra prossima a sposarsi; Hoi invece è un single dopo che molti anni addietro divorziò con la moglie che lo lasciò da solo a crescere il figlio ormai sposato e con una bambina che vivono con lui. L’incontro non avviene casualmente perché entrambi bazzicano i luoghi dove avvengono gli approcci tra gay, ma la loro relazione diventa ben presto solida tra frequentazioni di saune e di associazioni per la difesa dei diritti gay. Entrambi però non hanno mai dichiarato la loro condizione e non hanno intenzione di farlo preferendo vivere incatenati nel segreto e repressi nei sentimenti. La storia raccontata da Ray Yeung ruota tutto intorno al rapporto che si crea tra i due e sulla condizione delle comunità gay che deve combattere contro l’avversione e i pregiudizi atavici del resto della società. Peccato per un finale assolutamente pasticciato, in tutti i sensi, dove attraverso una interpretazione fallace dei dettami religiosi si vuol tracciare un percorso di affermazione della propria condizione, perché per il resto il film ha il pregio di sfruttare molto bene le ambientazioni e gli scorci che offre Hong Kong, creando un'atmosfera molto famigliare e di tranquillità. (M.V.)

colorless, di Takashi Koyama (Giappone)



Shu e Yuka, lui fotografo freelance in cerca di affermazione ma con le idee poco chiare su quale strada intraprendere, lei aspirante modella e attrice giunta da poco a Tokyo, stringono una relazione sentimentale dopo aver realizzato insieme un servizio fotografico grazie al quale guadagneranno un po' di notorietà: questo quello che potremmo definire il lungo incipit da cui parte colorless, film d'esordio di Takashi Koyama, ancora inedito in Giappone a causa della pandemia di Covid-19 (l'uscita, rimandata, era prevista a giugno). L'ennesimo film su una classica love story tra due giovani con il sogno di sfondare nell'industria dello spettacolo? Non proprio: dopo un primo capitolo in cui l'amore tra i due deflagra, il regista ci prende piacevolmente in contropiede con altri due segmenti, spostando la narrazione indietro e poi in avanti nel tempo per raccontare il prima e il dopo di un amore apparentemente puro ma in cui in realtà batte un cuore marcio, soprattutto a causa dell'ambiguità che accompagna il personaggio della ragazza (interpretata da una bravissima Ruka Ishikawa, anche lei come Yuka attrice alle prime armi, qui infatti al suo secondo lungometraggio). Una scelta narrativa che disattende le dinamiche della love story convenzionale per seguire un preciso intento: indagare sotto la superficie delle apparenze le fragilità di chi ambisce alle luci della ribalta, un mondo che vediamo fatto di meschinità, compromessi spesso torbidi, rapporti subalterni, invidie, inganni e ricatti, e che si nutre delle speranze di chi incomincia ad affacciarsi alla vita senza una consapevolezza di sé. colorless finisce così per essere un film ricco di sottintesi preziosi, anche se a volte nel suo voler mimetizzare le sue intenzioni rischia di essere un po' troppo come la sua protagonista Yuka: indistinto, sfuggente, incolore come recita il titolo. (F.S.)

Romance Doll, di Yuki Tanada (Giappone)



Tetsuo è un designer che lavora in un laboratorio dove si producono sex dolls, ovvero bambole a scopi sessuali che, dall'elasticità della pelle alla morbidezza dei seni, vogliono essere una riproduzione perfetta di donne in carne e ossa. Nella disperata ricerca di nuove tecniche di realizzazione per aumentare il realismo delle bambole, Tetsuo si ritrova costretto dal suo mentore e superiore ad effettuare il calco dei seni di una donna reale, Sonoko, una modella di nudo artistico a cui però viene detto che le forme del suo bel corpo serviranno per fabbricare protesi mammarie. Tra Tetsuo e Sonoko nasce subito una storia d'amore che li farà convolare a nozze, ma c'è un problema che rischia di minare il loro rapporto: l'uomo non ha il coraggio di confessarle di lavorare per un'azienda che fabbrica sex dolls... Ritorno che lascia un po' l'amaro in bocca quello di Yuki Tanaka, vecchia conoscenza del Far East Film Festival che nel 2009 la accolse con lo splendido road movie One Million Yen Girl (vincendo peraltro un premio, il MyMovies Award). Se nella prima parte la regista diverte e appassiona grazie a una serie di situazioni ben dosate che giocano sulla natura un po' bizzarra del lavoro del protagonista, nella seconda il racconto vira piano piano verso una deriva melodrammatica scontata in cui una terribile scoperta (non vi sveliamo quale) rischia di minare l'amore della coppia. Per fortuna i due interpreti principali (Issey Takahashi e soprattutto Yu Aoi, già protagonista di One Million Yen Girl) ce la mettono tutta con le loro specificità attoriali (l'aria stranita di lui, il candore trattenuto di lei) a infondere un po' freschezza in un racconto che vorrebbe dire la sua sul sentimento della dissimulazione, uno dei tratti distintivi della vita di coppia nella cultura giapponese. (F.S.)


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