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Festa del Cinema di Roma 2019, promossi e bocciati: guida ai film

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In occasione della Festa del Cinema di Roma, ecco i giudizi degli inviati a tutti i film visionati alla 14esima edizione. Appunti critici di un'avventura dello sguardo lunga 11 giorni

 

 

 

Selezione Ufficiale

Motherless Brooklyn, di Edward Norton (Stati Uniti)



New York, anni Cinquanta. Sconvolto dall’uccisione del suo mentore ed amico mentre gli faceva da guardia durante un misterioso incontro in cui avrebbe dovuto avere luogo la consegna di documenti compromettenti in possesso dell’uomo in cambio di una somma di denaro, un investigatore privato, afflitto dalla Sindrome di Tourette che lo costretto a una vita solitaria, decide di fare chiarezza sulle circostanze dell’omicidio e sui responsabili. Si ritroverà di fronte a una matassa difficile da sbrogliare, fatta di segreti inconfessabili che proteggono gli interessi legati a un ambizioso piano di infrastrutture pubbliche. Edward Norton sceglie di portare sullo schermo un bestseller di Jonathan Lethem per la sua seconda prova dietro e davanti la macchina da presa che ha aperto la Festa del Cinema di Roma 2019. Un film nel solco della tradizione delle più classiche detective story del cinema americano: voce fuori campo narrante, atmosfera da noir metropolitano con contorno musicale jazz, sottotesto di denuncia contro la corruzione del sistema legale e politico. Tutto amalgamato nelle dosi giuste, senza una sbavatura, forse fin troppo. Norton come interprete non si discute (eccezionale per naturalezza ed empatia nel ruolo quasi inedito di un investigatore affetto da tic e disturbi ossessivo-compulsivi), ma non basta: come regista annoia, gira come se fosse già un veterano del genere, senza aggiungere nulla al repertorio. Un bel compitino, ma fiacco. (Francesco Siciliano)

Nomad: In the Footsteps of Bruce Chatwin, di Werner Herzog (Regno Unito)



Werner Herzog sulle orme di Bruce Chatwin, lo scrittore e viaggiatore britannico che è stato per lungo tempo amico del regista oltre che fonte di ispirazione per alcuni suoi film (uno su tutti: Cobra verde, tratto dal romanzo Il viceré di Ouidah). L’interesse incessante per le culture nomadi e le tradizioni aborigene che li accomunava, diventano il cuore pulsante di un documentario in cui Herzog ripercorre vita e opere di Chatwin, il suo legame con lo scrittore, la loro passione per la scoperta. Attraverso ricordi, luoghi e testimonianze prende così vita un diario intimo, artistico, antropologico che celebra una unione intellettuale. Risultato positivo a metà: se la voce del regista illumina lo schermo di riflessioni spesso preziose, il lavoro sulla forma sconta purtroppo una regia troppo scarna, rivelando la sua natura televisiva (il documentario è stato pensato dalla BBC per la distribuzione sul piccolo schermo nel Regno Unito). Un piccolo passo indietro rispetto agli ultimi due documentari di Herzog, Dentro l’inferno e Family Romance, LLC., cinematograficamente più appaganti. (F.S.)

Military Wives, di Peter Cattaneo (Regno Unito)




All’indomani della partenza dei mariti per la guerra in Afghanistan, un gruppo di donne deve organizzarsi per trovare il modo di impiegare le giornate in attività di svago auto-gestite, nella speranza così di attenuare lo stato di apprensione in cui vivono le loro famiglie, tutte residenti in una base militare a poca distanza da Londra, mentre attendono notizie dal fronte. Lo studio del canto sembra mettere tutte d’accordo. Dopo alcune difficoltà iniziali, le donne riescono a formare un coro, cui viene dato il nome di Military Wives Choir, e cominciano a esibirsi in pubblico. La loro dedizione e applicazione crescenti attira l’attenzione ai piani alti dell’esercito, pronto a sfruttarne un ritorno di immagine per attenuare le contestazioni contro la guerra organizzando un’esibizione alla Royal Albert Hall. A poco a poco emergono però differenze caratteriali tra le donne che rischiano di compromettere l’approdo nella celebre sala da concerti londinese. Ispirandosi a una storia vera, Peter Cattaneo cerca la stessa alchimia che gli regalò un inaspettato successo con Full Monty - Squattrinati organizzati: dramma e commedia che si fondono, coralità attraverso la somma di singolarità caratteriali con cui immedesimarsi, musica come collante sociale. Il risultato è però lontano da quello dell’esordio: i personaggi sono tagliati con l’accetta, l’humour britannico scivola spesso di mano con battute di dubbio gusto oltre che di dubbia efficacia comica e tutto è ammantato di una retorica della sorellanza nella condivisione di un destino comune che cerca la strada delle emozioni facili. E così alla fine le immagini scorrono sullo schermo in modo innocuo, tra situazioni che non arrivano mai veramente a divertire o a commuovere come era nelle intenzioni iniziali, nonostante la presenza nel cast di attrici come Kristin Scott Thomas e Sharon Horgan. (F.S.)

Honey Boy, di Alma Har’el (Stati Uniti)



Una giovane star del cinema si ritrova costretta a trascorrere un periodo di riabilitazione in un centro di recupero per evitare di finire in carcere dopo l’ennesimo arresto per guida in stato di ebrezza. È l’inizio di un difficile percorso di riconciliazione con un passato problematico segnato dalla figura ingombrante del padre, un ex clown da rodeo con alle spalle una dipendenza da droghe e alcol, persona violenta e narcisista che ha influenzato profondamente la crescita del ragazzo durante il periodo dell’infanzia, quando la carriera di attore era agli inizi e i due vivevano in un motel fatiscente popolato da prostitute. Il cinema come terapia ed esorcizzazione dei demoni del proprio passato: dietro la storia di Honey Boy, lungometraggio d’esordio di Alma Har’el, premiato al Sundance Film Festival, c’è un pezzo di vita di Shia LaBeouf, astro nascente di Hollywood ai tempi della saga di Transformers, poi balzato alle cronache per i suoi guai con la giustizia, qui autore della sceneggiatura (scritta durante un periodo in rehab) nonché co-protagonista nel ruolo del padre della giovane star. Autobiografismo che parla di rapporti disfunzionali tra genitori e figli, senza sensazionalismi o ricatti emotivi, ma senza nemmeno uno scavo psicologico che vada oltre la semplice fotografia di vulnerabilità e fragilità umane. Un cinema indie americano di buona fattura, dove però le scene si ripetono un po’ troppo. (F.S.)

Antigone, di Sophie Deraspe (Canada)



Sophie Deraspe rappresenta una delle figure di avanguardia del cinema canadese francofono e, portandosi sul groppone il premio ricevuto a Toronto come migliore opera del cinema canadese, presenta alla Festa del Cinema di Roma Antigone, (molto)personale rilettura della tragedia greca di Sofocle.
Protagonista del racconto è una giovane immigrata da un qualche paese arabo sconvolto dalla guerra di nome Antigone appunto. La ragazza che vive coi due fratelli e con un’altra sorella insieme alla nonna visto che i genitori sono morti durante la guerra, diventa l’eroina, come nella tragedia, che lotta contro la legge e contro la morale per difendere l’integrità della famiglia dopo che Eteocle, uno dei fratelli, affiliato ad una banda di criminali arabi, viene ucciso dalla polizia durante l’arresto di Polynice, l’altro fratello. Antigone sfida la legge, sfida le regole, sfida le convenzioni per affermare il suo valore che risiede nell’unità della famiglia da difendere a tutti i costi, anche di fronte alle azioni criminose dei fratelli, a maggior ragione quando viene messa di fronte alla scelta tra diventare per sempre cittadina canadese, rinnegando in qualche modo il fratello carcerato. Se sotto l’aspetto tecnico il film mostra l’indubbio talento visivo della regista che si muove tra la clip art e la street art, tra il videoclip musicale e il cinema d’autore, l’aspetto più puramente narrativo lascia molto a desiderare seppur dopo un inizio promettente: ben presto il racconto si impantana sul film di denuncia e sulla costruzione di una figura eroica che vorrebbe essere una moderna Antigone, in una operazione per molti versi piuttosto pretenziosa. Un finale piuttosto stilizzato ed ermetico salva il film dalla caduta generale che per buona parte della seconda metà del film si va costruendo lentamente. Un Antigone insomma in versione francocanadese che non convince, soprattutto perché appare come un semplice pretesto per costruire un mito femmineo moderno che non appare sufficientemente omogeneo a quello della tragedia di Sofocle e tutto sommato abbastanza forzato. (Massimo Volpe)

The Irishman, di Martin Scorsese (Stati Uniti)



La vita di Frank Sheeran, un camionista ex veterano della Seconda Guerra Mondiale, cambia radicalmente il giorno in cui il destino gli fa incontrare Russell Bufalino, un influente boss della mafia di Filadelfia che lo prende sotto la sua ala protettiva. Da semplice trasportatore di carni Frank diventa un membro del crimine organizzato, prima come sicario (in gergo “imbianchino”, ossia colui che sporca i muri con il sangue delle sue vittime), poi come guardaspalle e assistente del carismatico Jimmy Hoffa, il presidente del sindacato più potente degli Stati Uniti, l’International Brotherhood of Teamsters, molto vicino agli ambienti della mafia. L’ascesa di Frank sembra inarrestabile, fino a quando non si ritroverà a dover compiere una scelta dolorosa… Robert De Niro e Joe Pesci, mafia italo-americana, spargimenti di sangue e omicidi: bastano questi elementi per pensare a The Irishman, prodotto da Netflix, come all’atteso ritorno di Martin Scorsese al gangster-movie, quello per intenderci di Quei bravi ragazzi e Casinò. Scordiamoci però la frenesia stilistica che animava quei film e la carica romantica dei loro personaggi: The Irishman vuole essere qualcos’altro. È soprattutto una riflessione lenta e cupa che, nei modi dell’epopea che unisce il racconto intimo all’affresco storico (dal dopoguerra al Watergate, passando per l’invasione di Cuba e l’omicidio Kennedy), cerca di fare i conti con una delle ossessioni scorsesiane per eccellenza: la dualità lacerante tra principi morali opposti che generano inestricabili e oscure lotte di potere, condannando le persone a un logorio ‘spirituale’ e fisico senza possibilità di salvezza. Se il film viaggia per gran parte sui binari sicuri di un susseguirsi vertiginoso di situazioni e personaggi impreziositi dalla solita cura maniacale di Scorsese per la composizione dell’inquadratura, è nel segmento finale (quello della vecchiaia in solitudine di Frank) che il cinema del regista italo-americano trova nuovi livelli di significato, con quel senso di sconfitta (e di morte, non a caso le didascalie nei frame di introduzione ai vari personaggi si soffermano meticolosamente sul modo in cui essi hanno perso la vita nella realtà) che attanaglia il protagonista interpretato da De Niro, come celebrazione della fine di un intero immaginario (cinematografico e non) forgiato dalla fascinazione per la violenza. Fenomenale il cast di interpreti: oltre a De Niro, Joe Pesci nei panni del boss e Al Pacino in quelli di Hoffa. (F.S.)

The Farewell, di Lulu Wang (Stati Uniti)



Billi vive a New York, dove si è trasferita con la famiglia venticinque anni prima lasciando la Cina, ormai è un’americana acquisita a tutti gli effetti e i suoi ritorni nel paese Natale sono stati rari e distanti nel tempo. Quando giunge la notizia che la vecchia nonna è malata di cancro e le rimane poco da vivere, Billi decide di volare a Changchun nonostante i genitori lo sconsiglino: tutta la famiglia ha deciso di mettere in scena il finto matrimonio tra il cugino di Billi e una ragazza giapponese per poter giustificare la presenza di tutti i membri della famiglia giunti per vedere per l’ultima volta viva la vecchia nonna. Muovendosi tra il film autobiografico, la commedia agrodolce, la satira sui costumi e le usanze dei cinesi (ma anche degli americani), soprattutto riguardo alla tematica dell’informare o meno un malato terminale delle sue condizioni, la regista sino-americana Lulu Wang dirige un lavoro che ha divertito e anche commosso la platea della rassegna cinematografica romana dopo aver raccolto numerosi apprezzamenti al Sundance Film Festival, dove ha avuto l’anteprima, e nelle altre rassegne in cui è stato proiettato. In effetti la mescola funziona bene, e soprattutto si apprezza la sincerità della storia e dei sentimenti come sempre quando il lato autobiografico viene maneggiato in maniera non invasiva e discreta. Anche la tematica della ricerca delle proprie radici e della prospettiva di vedere le cose che cambia al modificarsi dell’ambiente sociale esterno, è ben strutturata in modo equilibrato. The Farewell risulta lavoro piacevole, che diverte in modo intelligente e lascia riflettere su come, in conclusione, la globalizzazione planetaria incalzante non riesca a omogeneizzare tutto e a cancellare gli usi e le tradizioni millenarie facenti parte della cultura di un Paese. Il lavoro di Lulu Wang sarà presente anche nelle sale italiane a partire dai primi giorni del 2020. (M.V.)

Adoration, di Fabrice du Welz (Belgio, Francia)



Regista che aveva coagulato intorno a se qualche anno fa un grande interesse, soprattutto per l’impulso personale dato al genere horror psicologico, Fabrice du Weltz aveva da qualche tempo fatto perdere le sue tracce prima di riemergere dall’anonimato con Adoration, un thriller con al centro del racconto una coppia di adolescenti in fuga dalla vita. Paul vive con la madre nella clinica psichiatrica immersa nel bosco dove la donna lavora, è un ragazzino silenzioso ma sensibile, che vive quasi un afflato soprannaturale con la natura che lo circonda. Quando nel parco nel quale è immerso l’istituto incontra Gloria, una ragazzina con notevoli problemi psichiatrici, la sua esistenza subisce un cambiamento repentino. Letteralmente rapito e infatuato della ragazza, Paul si presta in tutti i modi per aiutarla nonostante la madre lo metta in guardia. Niente però impedirà ai due di fuggire dopo che Paul avrà visto con i suoi occhi per la prima volta cosa è in grado di fare Gloria. Nonostante il timore per lo stato della ragazza, Paul si lascia andare a questa fuga folle, nutrita dalla insanità che risiede nelle mente di Gloria e dall’amore totalizzante del ragazzo che non vacilla neppure davanti all’emergere dei demoni della sua amica. Lavoro che si lascia alle spalle le atmosfere morbose e ribollenti di follie e perversioni che avevano fatto la fortuna del regista, Adoration possiede una notevole forza narrativa che però du Weltz non sempre riesce a incanalare nel modo più opportuno al punto che il film per molti versi può essere considerato una occasione persa. Girato in pellicola, l’ultimo lavoro del regista belga tende a richiamare più la compenetrazione con la natura di stampo malickiano che i toni da horror, con il risultato di offrire immagini che la pellicola e le scelte di fotografia rendono particolarmente calde e avvolgenti, quasi ad avviluppare i due giovani protagonisti alle prese con la follia e con il battesimo nella vita adulta dove c’è poco spazio per il gioco e l’innocenza. (M.V.)

Il ladro di giorni, di Guido Lombardi (Italia)



Salvo, undici anni, vive con gli zii in Trentino. Il giorno della sua Prima Comunione ricompare il padre Vincenzo che non vede da quando era stato arrestato in Puglia. Uscito di prigione, sette anni dopo, l’uomo ottiene il permesso di passare qualche giorno con il figlio e parte con lui verso il sud Italia. In auto un carico importante che deve consegnare a Bari. Il plot sarebbe anche interessante (un soggetto che vinse il Premio Solinas), peccato che lo sviluppo porti a un film debolissimo, scontato in ogni svolta narrativa, con incastri forzati e battute prevedibili da bassa scuola di sceneggiatura che fanno perdere ogni credibilità alla storia. Un road movie padre e figlio, con immancabili immagini da cartolina per fare felici le Film Commission regionali coinvolte, costruito secondo uno schema di racconto di redenzione-formazione che non scava in profondità nei personaggi. Poco giudicabili, con una regia così banale, Riccardo Scamarcio e il piccolo Augusto Zazzaro. Tra i personaggi di contorno (ci sono anche due turiste austriache protagonisti di alcune delle scene più imbarazzanti) l’unico da segnalare è quello interpretato da Massimo Popolizio: ex compagno di crimini di Vincenzo. Un brutto passo falso per Lombardi dopo il buon esordio con Là-bas e il discreto gioco sui generi con Take Five. (Fabio Canessa)

Trois jours et une vie, di Nicolas Boukhrief (Francia, Belgio)



Ultimi giorni del Secondo Millennio: un paesino delle Ardenne al confine tra Belgio e Francia, un ragazzino di sei anni scompare misteriosamente e tutto il paese durante le feste si mobilita alla sua ricerca. L’unico che sa veramente cosa è successo è Antoine, un altro ragazzino di qualche anno più grande, che però per paura e per mantenere il segreto tace. Quindici anni dopo Antoine torna al suo paese dove nulla sembra cambiato, ora è un giovane medico pieno di speranze che non ha smesso di amare la madre con cui è cresciuto. Il ritorno a casa incredibilmente riporterà alla luce lentamente, ma inesorabilmente, il passato, mettendo il ragazzo di fronte a scelte dolorose.
Costruito nella prima parte come un intelligente noir a sfondo psicologico che viene però spazzato via dalla tempesta che si scatena sul paese e che cancella forse per sempre le tracce di quello che è accaduto al piccolo scomparso, Trois jours et une vie di Nicolas Boukhrief perde nella seconda parte molto dello smalto del suo inizio, troppo impegnato a rincorrere un plot narrativo fin troppo incalzante nel quale si affastellano episodi e situazioni che dovrebbero sì creare un groviglio narrativo che avvolge e immobilizza i personaggi, ma che di fatto crea una pletora di avvenimenti che vengono trattati con colpevole superficialità e che portano a diluire la forza dei personaggi. Il film vorrebbe essere una riflessione sul rimorso, sul sepolto che torna a galla inesorabilmente anche dopo tanto tempo e sulla ricerca di una catarsi illusoria: per alcuni aspetti il risultato è raggiunto soprattutto quando l’ambiente provinciale e un po’ racchiuso in se stesso è ben delineato, per altri il lavoro di Boukhrief, tratto da un romanzo di Pierre Lemaitre, appare come una occasione persa, l’ennesima vista in questa rassegna romana. (M.V.)

Judy, di Rupert Goold (Stati Uniti)



Con i biopic si vincono spesso gli Oscar e profuma di statuetta l’interpretazione di Renée Zellweger. La sua è una di quelle prove che piacciono tanto all’Academy e in effetti rappresentano la forza di film come Judy, tutto costruito sulle spalle della protagonista che si cala totalmente nel personaggio. Anima e corpo. Così l’attrice diventa Judy Garland verso la fine della sua carriera e della sua vita. Quando nel 1968, a corto di soldi, è costretta ad accettare una tournée di concerti a Londra con l’obiettivo di rivendicare poi l’affido dei figli più piccoli avuti da Sidney Luft (Liza Minnelli nata dal precedente matrimonio con il regista Vincente era già grande). Il canto del cigno, tra momenti di grandezza e tracolli dovuti alla depressione e all’abuso di alcol e barbiturici (morirà pochi mesi dopo), dell’icona di Hollywood sotto i riflettori sin da bambina quando interpretando Il mago di Oz era diventata la fidanzatina d’America. Forse con troppa insistenza e in modo troppo semplicistico il film inquadra la causa del suo tormento senza fine nell’infanzia negata, ma i flashback che riportano ai tempi in cui Judy Garland era Dorothy hanno il giusto peso nel denunciare il lato mostruoso dell’industria cinematografica (rappresentata dal padre-padrone Louis B. Mayer) che non si fa scrupoli a sfruttare le baby star. Peccato per una regia abbastanza scolastica e per alcuni passaggi che cercano smaccatamente la lacrima dello spettatore. (F.C.)

The Aeronauts, di Tom Harper (Regno Unito)

1862. La pilota Amelia Wren e lo scienziato James Glaisher partono per un viaggio incredibile in mongolfiera per volare più in alto di quanto altri uomini abbiano mai fatto e per studiare l’atmosfera. Una storia vera a metà, il personaggio femminile è fittizio e sostituisce l’uomo che accompagnò Glaisher nell’impresa, e raccontata con quella ricerca di spettacolarità che richiede a chi guarda la totale sospensione dell’incredulità. Il film è sostanzialmente tutto qui, un’avventura alla Jules Verne in tempi di CGI con i due protagonisti che devono superare continue situazioni di pericolo in ascesa e soprattutto per tornare sani e salvi sulla Terra dopo aver toccato il cielo a oltre dieci chilometri di altezza. A comporre la sceneggiatura ci pensano immancabili flashback che vogliono raccontare qualcosa in più dei personaggi, lui deciso ad affermare la meteorologia come nuova scienza e lei di nuovo in volo per superare una tragedia personale. Personaggi diversissimi tra loro, ma secondo un canone classico di molta narrazione cinematografica destinati a superare l’incompatibilità mentre rischiano la vita e a trovare l’intesa sentimentale. Che, unica sorpresa di un film scontato, rimane platonica. Cinema di intrattenimento che si dimentica già sui titoli di coda. (F.C.)

Run With the Hunted, di John Swab (Stati Uniti)



Diretto da John Swab,al suo secondo lungometraggio, Run With the Hunted fa parte di quella pattuglia di film indipendenti americani di cui ogni anno si popola la Festa del Cinema di Roma, grazie all’occhio lungo del suo direttore artistico Antonio Monda: peccato che, a parte qualche rarissima eccezione, questi lavori risultano tutt’altro che degni di nota, spesso confusi quando non pretenziosi o addirittura di difficile lettura, ben lontani dai numerosi esempi di cinema americano indipendente che ultimamente hanno sorpreso per il loro valore artistico. Il film di Swab è il racconto di una ragazzino della provincia americana, quella sporca e abbrutita, che passa le sue giornate con i suoi amichetti vicini di casa, affidati ad un padre ubriacone, sfaccendato e violento. Quando Oscar, il protagonista, viene a sapere delle molestie subite da Loux, la sua amichetta, non si crea problemi a far fuori il padre di questa, per poi fuggire in città per nascondersi. Qui entra in contatto con una banda di adolescenti manovrata da una gang di laidi personaggi che lo tiene nascosto da quelli che lo cercano. Quindi anni dopo Oscar ha fatto carriera nella banda, addestra i ragazzini all’uso della armi e alle tecniche di rapina, ma è sempre sottomesso nella scala gerarchica agli stessi personaggi che si arricchiscono con le gesta della banda. Il passato ritorna: Loux casualmente incontra Oscar, ma per quest’ultimo uscire dal giro infernale in cui si è infilato è tutt’altro che semplice. A parte le solite tematiche su una gioventù abbandonata a se stessa e nichilista, alla disgregazione famigliare e alla mancanza di qualsiasi forma di morale in seno alla società, Run With the hunted viaggia su un binario fin troppo spedito per poter risultare di un qualche interesse. Scarso profilo dei personaggi, unico punto di riferimento il far quadrare il cerchio narrativo e soprattutto assenza o quasi di una prospettiva personale fanno della pellicola di John Swab un tentativo mal riuscito di raccontare una storia utilizzando canoni originali, nonostante l’ottima prova alla recitazione di Michael Pitt. (M.V.)



Alice nella città


L’età giovane, di Jean-Pierre e Luc Dardenne (Belgio, Francia)



Belgio, giorni nostri. Ahmed è un adolescente di tredici anni cresciuto in una famiglia di origine musulmana. Senza più un padre e con una madre che inizia ad accennare problemi di alcolismo, il ragazzino trova nello studio e nell’applicazione dei precetti dell’Islam la sua educazione alla vita, subendo l’indottrinamento di un imam integralista e pericoloso, che professa l’inizio della jihad e l’odio degli ebrei e dei cristiani. L’uomo sembra diventato per Ahmed una sorta di secondo padre acquisito oltre che una guida spirituale: così per compiacerlo il ragazzino pianifica l’uccisione di una sua insegnante di scuola, la cui colpa è quella di aver avuto l’ardire di organizzare un corso per l’apprendimento dell’arabo contemporaneo, rivolto ai figli delle famiglie di immigrati musulmani, con l’intento di fornire gli strumenti per una migliore conoscenza delle loro radici culturali al di fuori dell’influenza degli imam. I Dardenne puntano in alto con un tema vasto e complesso (la radicalizzazione islamica delle seconde generazioni in Europa), ma questa volta il cinema dei due fratelli sembra avere le armi spuntate. Più che un personaggio strappato alla realtà come i due registi vorrebbero lasciar intendere, il protagonista Ahmen è un burattino nelle loro mani, schiavo di uno schematismo estremo che risolve in modo sbrigativo e superficiale gli snodi narrativi più importanti di una indagine ad altezza di adolescente degli effetti delle distorsioni della presenza musulmana in Belgio. Aggiungiamoci una messa in scena che si adagia sul repertorio stilistico ormai scontato e logoro del duo (l’imprescindibile cinema-verità) e avremo uno dei film più sterili targato Dardenne, incredibilmente premiato per la miglior regia all’ultimo Festival di Cannes. (F.S.)

L’agnello, di Mario Piredda (Italia)



Dopo un bel percorso con film brevi, culminato nella realizzazione di A casa mia, vincitore del David di Donatello come miglior corto nel 2017, Mario Piredda esordisce nel lungometraggio con la stessa attenzione alle piccole cose, la ricerca di spontaneità delle interpretazioni e uno stile che sembra richiamare a certo cinema del nord Europa. L’agnello ha per protagonista la diciassettenne Anita che vive con il padre Jacopo, malato di leucemia e bisognoso di un trapianto, vicino a una base militare. In Sardegna. Una famiglia ferita in un territorio ferito dalla presenza nascosta, ingombrante, funerea delle basi militari evocante con le immagini di recinzioni, filo spinato, mezzi dell’esercito. Non sarebbe giusto, però, semplificare e catalogare L’agnello come un film di denuncia. Della relazione tra attività belliche e salute delle persone che abitano ai margini delle basi parlano diverse inchieste e l’opera di Piredda non è un documentario, ma un film di finzione seppur ben ancorato a una realtà di cui viene tratteggiato un disagio che è anche economico. Al regista sardo interessa concentrarsi sui personaggi, sui rapporti umani, il dramma familiare visto in particolare con gli occhi di una adolescente. In questa prospettiva il film si configura anche come un racconto di formazione, seppur atipico rispetto a un classico coming-of-age. Una buona opera prima. (F.C.)


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