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Conclusioni Venezia 72 - Parte III: luci e ombre di un'edizione intermittente

Considerazioni finali sulla Mostra del Cinema 2015: il bilancio soggettivo e parziale di un’edizione interessante ma priva di grandi emozioni

Anche l’edizione numero settantadue della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia si è conclusa, lasciando alcune perplessità sui premi assegnati e sulla selezione delle pellicole in concorso. Che il Festival si dovesse confrontare con le problematiche e i grandi mutamenti del Cinema d’autore attuale si era intuito già dalle parole del direttore Alberto Barbera: “La Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia prova a tener testa a questi cambiamenti, a inseguirli, a fotografarli, a fermare per un attimo lo stato dell'arte della scena cinematografica internazionale. Se la società e il mondo sono diventati liquidi, esplorare le tante terre emerse dopo la grande mutazione significa partire all’esplorazione dell’inedito, ma anche alla riscoperta dell’antico che si presenta sotto nuove vesti. Se è vero che un’intera generazione di cineasti - la punta dell'iceberg di una produzione di massa che per trenta, quarant’anni, ha rappresentato il blocco di riferimento per critici, cinefili e spettatori attenti - sta venendo meno per raggiunti limiti di età, o blocchi creativi, o crescenti difficoltà di finanziamento, significa che siamo in un momento storico che sta ancora cercando le sue stelle polari per riuscire a orientarsi, mentre l’industria culturale non è già più là dove ancora pensiamo si trovi in base alla nostra limitata capacità di percezione e analisi”. Era indubbio, quindi, che lo sforzo profuso nella scelta dei lungometraggi in concorso dovesse avere anche una valenza simbolica, indicando in parte questo processo di rinnovamento.

Tuttavia, il risultato finale non è stato in linea con le aspettative: l’accostamento di autori emergenti a maestri consolidati della Settima Arte non ha prodotto nessun contrasto stridente con cui animare la rassegna. Se si esclude Aleksandr Sokurov e il suo splendido Francofonia, le grandi firme hanno spesso deluso presentando lavori sorprendentemente ordinari (basti pensare a un film in definitiva anonimo come Remember di Atom Egoyan). Similmente, i nuovi talenti non hanno saputo imporre una loro poetica di rottura: paradossalmente, in molti hanno già dimostrato di possedere uno stile talmente allineato ai canoni da rassegna da sfiorare il manierismo. The Endless River è un chiaro esempio di questa ricercatezza artificiosa e poco autentica, che punta a imporre un Cinema costruito per tentare di accattivarsi consensi.
Anche il vincitore del Leone d’Oro, il venezuelano Lorenzo Vigas, ha impressionato per la maturità al limite del déjà vu artistico del suo esordio Desda allá, che ricorda (fra gli altri) le atmosfere e le suggestioni dei lavori di Pablo Larrain. L’argentino El Clan di Pablo Trapero (premiato per la regia) non introduce di certo elementi di innovazione particolarmente rilevanti, ma col suo ritmo e la sua costruzione narrativa deve aver convinto i giurati. Sotto questo punto di vista sono sicuramente maggiormente lodevoli i contributi apportati da lavori come AnomalisaAbluka (secondo lungometraggio del turco Emin Alper), che a modo loro hanno saputo proporre un approccio più personale e meno riconducibile ai soliti facili paradigmi estetici.

Come nelle intenzioni del direttore Barbera, quindi, il Sud America è stato protagonista con una predominanza all’interno della competizione non totalmente disinteressata. Appare infatti difficile accettare l’idea (avanzata all’annuncio del programma ufficiale) di un Cinema asiatico in difficoltà e non in grado di offrire pellicole da affiancare a quelle viste, soprattutto constatando la qualità dei film comunque presenti. Tralasciando i giudizi di merito sul grande sconfitto Behemoth, appare evidente che la compagine orientale potesse essere un valore aggiunto per il concorso, anche in virtù degli interessanti lavori presentati nelle sezioni collaterali: da Underground Fragrance di Pengfei ad Afternoon di Tsai Ming-liang, inspiegabilmente relegato ai margini del festival nonostante la partecipazione del regista pluripremiato (la sua conferenza stampa si è tenuta addirittura in fase di chiusura). Contraddizioni tipiche della Mostra, che storicamente ha abituato il pubblico a constatare i limiti del lavoro di selezione, ma anche a lottare con una pianificazione assai stravagante delle proiezioni.
Diviene allora sintomatico che pellicole italiane di scarso valore (come il pretenzioso e insensato A Bigger Splash) abbiano grande visibilità, mentre il bel documentario di Franco Maresco Gli uomini di questa città io non li conosco sia passato quasi del tutto inosservato.

A conti fatti, quindi, il palmares finale non è poi così inaspettato: in una edizione abituata all’ordinario, e in assenza di un vero capolavoro in grado di mettere d’accordo pubblica e critica, la giuria si è pronunciata con scelte prudenti e poco rischiose. Forse neanche l’attribuzione del massimo riconoscimento a Desda allá costituisce un reale tentativo di rompere qualche schema, ma più uno sforzo di dare coerenza e un orientamento globale all’intera rassegna. La speranza è che queste valutazioni possano contribuire alla crescita artistica dei vincitori, e non finiscano per diventare un semplice dato statistico che a distanza di anni aumenta solo i rimpianti.


Simone Tricarico

Pensieri sparsi di un amante della Settima Arte, che si limita a constatare come il vero Cinema sia integrale riproduzione dell’irriproducibile.

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