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Diario Festival di Rotterdam 2015: le prime scoperte

Vita e cinema all'International Film Festival di Rotterdam 2015: alle prime scoperte registiche e ai primi esempi di originalità, si associano piccole delusioni e occasioni perse. L'atmosfera della kermesse rimane però vitale, anche se il tempo atmosferico gioca un po' di scherzi

Innanzitutto il contesto. C'è da sfatare subito un mito. A Rotterdam non fa così freddo o perlomeno non è così impossibile da gestire. Ciò che realmente scompagina i pensieri e le azioni di ogni uomo o donna non residenti nella città olandese è il vento. È infido perché penetra nelle piccole fessure dei cappotti, così da propagare un leggero brivido per tutto il corpo. Lo stato di malessere peggiora, inoltre, quando al vento si accompagna anche una pioggerellina fitta e impercettibile che assomiglia più a piccole lamelle di ghiaccio che segnano quei pochi centimetri di pelle scoperti dalla combinazione cappotto-sciarpa-cappello-guanti. Ciò che rende comica questa situazione è che gli abitanti di Rotterdam sfrecciano in sella alle loro biciclette con giacche aperte e il volto arrossato, guardando anche con un certo stupore le persone bardate da testa a piedi, come me.
Meglio passare al cinema, dunque, e lasciamo le questioni meteo fuori dal De Doelen, sede principale delle proiezioni del festival. Premessa fondamentale per comprendere l'atmosfera dell'International Film Festival di Rotterdam. I film presentati nei diversi concorsi, per la maggior parte, sono opere prime e seconde, quindi cercare in essi artisticità, autorialità, finezze registiche o narrative appare superfluo e forzato. Questi lavori devono essere intesi nella volontà da parte dei giovani cineasti di voler intraprendere un percorso di racconto per immagini originale, proprio e sperimentale, narrativamente e tecnicamente.

America Latina. La quinta giornata dell'Hivos Tiger Award dell'IFFR, la prima per chi vi scrive, si attesta nel segno di narratori provenienti dall'America del Sud. Originalità dunque. Il secondo lungometraggio, The Project of the Century, di Carlos M. Quintela, dopo La Piscina del 2011 e tre corti di cui uno documentaristico, si propone come un affresco della Cuba contemporanea narrata tra finzione e documentario. La vita dei tre protagonisti, tre generazioni di cubani a confronto, il nonno Otto, il padre Rafael e il figlio Leo, costretti a convivere forzatamente in una piccola casa, si svolge all'ombra del Progetto del secolo, cui fa riferimento il titolo della pellicola, ossia la costruzione negli anni Ottanta nei Caraibi della prima centrale nucleare finanziata dall'Unione Sovietica. Il programma di costruzione si bloccò, nel 1991 alla caduta dello Stato. Negli occhi dei cubani più anziani, come Otto, rimane, ora, solo il fascino del ricordo di un grande momento della storia dell'isola e di quel solido e potente impero che fu l'URSS. Suo figlio Rafael, che a causa della chiusura del cantiere perse il suo lavoro come operaio, appare, invece, pervaso da un senso di stasi, mentre il giovane Leo, è schiacciato dalla prosopopea anacronistica del nonno, dall'ignavia del padre e da una ragazza che lo ha appena lasciato. Quintela analizza, così, lo stato di stallo della sua nazione schiacciata tra il passato e il futuro (inesistente), giocando con la tecnica attraverso la proposta nel film di immagini di repertorio, servizi giornalistici sulla costruzione della centrale e il b/n utilizzato per narrare l'esistenza dei tre protagonisti, come a voler segnale la loro non appartenenza alla vita ordinaria, la loro non esistenza perenne. Il passaggio tra i piani visivi è, dunque, ben calibrato con degli stacchi mai prevedibili e disorientanti. La caratterizzazione dei tre uomini è realistica e vera, sia nei dialoghi che nei comportamenti, così da renderli quasi surreali nel loro non voler affrontare la vita. Il regista cubano, dunque, sperimenta e gioca con lo spettatore senza mai rischiare di confonderlo.

Purtroppo non si può dire lo stesso per le due argentine, Laura Citarella e Verónica Llinás, registe della loro seconda opera dal titolo Dog Lady. La stessa Llinás interpreta la donna protagonista che vive ai margini della città circondata dai suoi cani. Seppur rovisti nella spazzatura, lavi i suoi vestiti nel fiume e non comunichi con gli altri essere viventi, la donna non è indigente, bensì è consapevole del suo stato di emarginazione. Ciò è dimostrato dal suo sguardo lucido e fiero che lungo le stagioni, conduce la sua esistenza con la solida fermezza, difendendosi come può da ciò che la circonda, uomini, natura e città. Tale realtà è mostrata dalle registe spesso fuori fuoco, per sottolineare la distanza tra questo mondo e la protagonista. La pellicola, quindi, si attesta come una riflessione nella sua fase embrionale sulla possibilità di vivere degnamente anche ai margini della contemporaneità. Dog Lady, infatti, non sviscera alcun tipo di riflessione, anzi non è ben chiaro se si tratti di un film di finzione o un documentario.

Un gran peccato. Il fatto di cronaca è questo. Negli ultimi cinque anni nella regione di Bridgend in Galles si sono registrati una serie di suicidi di adolescenti che si sono impiccati nel bosco senza lasciare alcuna traccia. Il giovane regista Jeppe Rønde, alla sua opera prima, parte da ciò. Bridgend, questo il titolo del film, si propone come una riflessione sulla deriva di comportamenti e di pensieri del gruppo di ragazzi protagonisti, trascinati dalla voglia di urlare al mondo la loro insoddisfazione, da una fisicità dirompente e dalla ricerca del rischio come unico obiettivo di vita. Questo apparato dovrebbe condurre a cercare la motivazione dei reali suicidi, ma in realtà il regista interpone a questa dimensione una storia di amore adolescenziale tra la nuova ragazza arrivata in città, Sara, interpretata dalla neodiva inglese Hannah Murray, e un ragazzo del luogo. L'interpretazione della ragazza di registra in due espressioni principali. Nella prima parte della pellicola quasi catatonica e il suo volto è solcato da un sorrisino inebetito. Quando l'amore si espande nel suo cuore e conduce alla tragedia finale, l'espressione della ragazza si segna di lacrime e urla in un susseguirsi di scene madri. Bridgend, quindi, sfrutta molto bene l'atmosfera cupa e rigida del bosco, sottolineata da una musica digitale ripetitiva e opprimente, che avrebbe dovuto, però, trovare un maggiore equilibrio tra la cronaca dei suicidi e la storia d'amore, così da rendere credibili entrambi. Si attende Rønde al suo secondo film.

La sorpresa. Norfolk di Martin Radich arriva in questo panorama a portare un po' di coraggio. In un tempo e luogo indefinito vivono in isolamento un padre e un figlio accomunati dalla bassa attaccatura di capelli e dalla fronte marcatamente occipitale. La loro vita è velatamente sconvolta dall'arrivo in zona di una coppia di anziani, pieni di livore e rabbia, e da una famiglia composta da soli uomini e da una ragazza. Tra questa e il giovane protagonista si intesse una relazione basata essenzialmente su poche parole, ricerca di sguardi e sulla condivisione delle sensazioni. Mentre questi due si conoscono, il padre del ragazzo, sospinto da una folle forza, proveniente dalla televisione, arriva al punto di uccidere la famiglia della ragazza, che risparmia, e di tutti coloro in grado di minacciare con la loro presenza la zone in cui vive, fino ad arrivare al confronto con i due anziani attraverso cui si scopre un po' del suo passato. Il valore innovativo della pellicola si colloca nella grammatica del regista che si sviluppa tra il film di finzione, sviluppato da un'ottica monocromatica virata al colore della terra, e un tono surreale e delirante dato dalle inquadrature distorte e senza equilibrio che immortalano i momenti di follia del padre. A contorno ci sono i due giovani amanti che Radich riprende sempre nei loro sguardi timidi e di reciproca ricerca di sensazioni ed emozioni percettive guidata da un pallone colorato che li unisce. Al dolore, quindi, alla tragedia, in questa realtà dura e polverosa si affaccia un'emozione, la vita, che il regista introduce nel film passando proprio per la crudezza dell'esistenza dei due protagonisti, così da renderla reale e vera.

Ora siamo al secondo giorno di IFFR. In sala!


Davide Parpinel

Del cinema in ogni sua forma d'espressione, in ogni riferimento, in ogni suo modo e tempo, in ogni relazione che intesse con le altri arti e con l'uomo. Di questo vi parlo, a questo voglio avvicinarci per comprendere appieno l'enorme e ancora attuale potere di fascinazione della settima arte.

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