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Venezia 69 a nudo

Una immagine tratta da Spring BreakersUn bilancio della Mostra del Cinema di Venezia: cosa ha funzionato e cosa no nella 69esima edizione che ha visto trionfare Kim Ki-duk e il suo Pieta

Cosa rimane della 69esima Mostra del Cinema di Venezia, di undici giorni di dipendenza da film provenienti da tutto il mondo che ci hanno trasformato in zombie affamati di cinema? Per rispondere alla domanda, bisogna fare un passo indietro e partire dalle parole con cui Alberto Barbera presentava il lavoro svolto dopo l’addio (o l’arrivederci, chissà…) di Marco Muller a dicembre 2011.

Missione. Il direttore si esprimeva così in merito alla linea editoriale per il suo ritorno al timone della Mostra del Cinema: “Se questa edizione sarà servita a far conoscere un po’ meglio qualche autore rimasto sinora confinato nel proprio Paese o nel circuito limitato di alcuni festival specializzati; se, ancor di più, avrà rivelato registi ignorati e cinematografie giovani provenienti da aree geografiche pressoché prive di una tradizione filmica consolidata, allora si potrà dire che non solo si è reso un buon servizio al prestigio di un’istituzione che vanta trascorsi invidiabili in questo senso, ma si è riaffermato con forza il principio che un festival non può accontentarsi di essere una passerella di celebrità (ancorché autoriali) ma deve la sua principale ragione d’essere alla capacità di proporsi come uno scandaglio lanciato a sondare le profondità di un universo di cui troppo spesso si conosce solo la superficie. Ciascuno sarà libero di fare le proprie valutazioni”.

Una immagine tratta da The Master di Paul Thomas AndersonLa prova dei fatti. Barbera è riuscito nel suo intento? In parte sì e in parte no. La kermesse lagunare ha riservato molte conferme e poche sorprese. Per dirla in altre parole: se è vero che gli autori più quotati hanno dimostrato ancora una volta di che pasta sono fatti (alcuni lo hanno fatto con tutto il talento di cui sono capaci, ad esempio Paul Thomas Anderson, Terrence Malick, Brillante Mendoza, Kim Ki-duk, altri in tono minore, vedi Brian De Palma, mentre un discorso a parte meritano Takeshi Kitano e Marco Bellocchio), è altrettanto vero che le prove dei nomi meno blasonati – quelli su cui si giocava la bontà del lavoro di selezione – non hanno fatto registrare particolari meriti. Escluso quel ‘folle’ di Harmony Korine che ha consegnato agli schermi del Lido uno sconvolgente viaggio nella gioventù bruciata della generazione MTV (stiamo parlando del nostro colpo di fulmine Spring Breakers, in cima alle preferenze della redazione, amato dalla critica under 30 ma detestato dalle firme storiche dei quotidianisti che gli hanno preferito la nostalgia canaglia dei ragazzi sessantottini di Après Mai), tutti gli altri registi più ‘marginali’ hanno mancato l’appuntamento con la consacrazione: il duo belga Peter Brosens e Jessica Woodworth ci ha regalato uno splendido quadro animato sull’apocalisse della natura (La cinquième saison) dimenticandosi del tutto che il cinema non è pittura; l’israeliana Rama Burshtein ha annoiato a morte con la minuziosa cronaca di una comunità ebraica ortodossa scossa da vicende familiari (Fill the Void); Valeria Sarmiento ci ha sfinito con le due ore e mezza di un acerbo romanzo popolare ambientato in tempo di guerra (Linhas de Wellington) che gira a vuoto per tutta la sua durata; l’americano di origini iraniane Ramin Bahrani ha esplorato il lato oscuro del sogno americano con un film dimesso (At Any Price) che ha un andamento a encefalogramma piatto; il russo Kirill Serebrennikov ha preso il tema del tradimento e lo ha trasformato in qualcosa di freddo, meccanico e cervellotico, manco fosse un novello Antonioni.

Kim Ki-duk con il Leone d'oroFestival alla corda. Barbera ha anche lamentato la residua possibilità di scelta dei selezionatori dei festival, “sempre più condizionati da altre logiche e altri discorsi che non so se abbia ancora senso definire paracinematografici o extracinematografici – ha affermato il direttore –, visto il peso crescente che le logiche di marketing e le strategie stabilite dai responsabili di prodotto delle Majors o dai Sales Agents (sempre più invasivi) assumono nei confronti del destino di un film, delle modalità di promozione, dei percorsi di lancio e di uscita”. Non è così: l’esperienza mulleriana a Venezia e il Festival di Cannes, fedeli a un’idea di proposta cinefestivaliera che vede certi registi assurgere allo status di specie protetta, ci hanno insegnato che coltivare il proprio orticello con pazienza e perseveranza può portare i suoi (buoni) frutti (Darren Aronofsky a Venezia e Michael Haneke a Cannes ne sono una testimonianza). Vale soprattutto con i registi alla ricerca di una rampa di lancio, a patto però che si abbia un minimo di coraggio e intraprendenza e uno staff adeguato (possibile che da quest'anno la Biennale Cinema non abbia neanche un corrispondente per la selezione dei film giapponesi?). Esempio: uno come Wang Bing non avrebbe sfigurato nel Concorso, ma si è preferito metterlo nella sezione Orizzonti (dove peraltro si è aggiudicato il maggior riconoscimento con lo splendido Three Sisters). L’intervallo di Leonardo Di Costanzo ha vinto il premio FIPRESCI (assegnato da una commissione internazionale di critici cinematografici) nell’ambito di Orizzonti: perché non metterlo in concorso al posto del bistrattato Un giorno speciale di Francesca Comencini (a proposito: ogni tanto qualche no alle registe della famiglia Comencini, che di solito escono con le ossa rotte dalla competizione veneziana, non guasterebbe, eh…)? Gli esempi potrebbero continuare, ma ci fermiamo qui.

Una immagine del red carpet di Venezia 69Cosa ha funzionato. Lodevole l’idea di snellire la programmazione con una selezione più rigorosa. Barbera fa bene a voler trasformare Venezia in un festival iper-selettivo che dia la giusta visibilità al meglio che c’è in circolazione: solo così potrà contrastare lo strapotere della bulimia cinematografica di Toronto, che invece non dice di no a nessuno e proietta quasi 350 titoli senza porsi scrupoli sull’effettiva fruibilità della proposta filmica. In tempi di vacche magre, spettatori e operatori del settore non possono che essere a favori alla linea di Barbera. E poi, con tutta sincerità, avere a disposizione un po’ più tempo per dirigersi da una sala all’altra senza rischiare un infarto, mangiare evitando di cronometrare la durata dei pasti, interagire con le persone circostanti, farsi una pennichella dove capita tra un film e l’altro (succede anche questo al Lido…), senza la paura che gli spettacoli si sovrappongano, ha facilitato non poco la vita al festival.

Tirando le somme. Per rispondere alla domanda con cui abbiamo aperto questo bilancio, possiamo affermare che di Venezia 69 resta la sensazione di un’edizione di medio livello, con un concorso altalenante, un fuori concorso fiacco e una sezione Orizzonti che ha riservato più di una sorpresa. Un’edizione che ha avuto il pregio di mettere in fila una serie di film che mai come quest’anno hanno diviso la critica e il pubblico in ‘falchi’ e ‘colombe’, segno che abbiamo visto un cinema capace di mettere in discussione certezze assodate, il che non guasta mai. Il divismo, poi, che tanto impegna i pensieri degli inviati dei nostri quotidiani, non è mancato, anche se in piccole dosi. Per il prossimo anno ci aspettiamo più coraggio nelle scelte di Barbera in linea con la sua filosofia di festival.

Di seguito i dieci momenti topici della Mostra 2012:

1.    Maria Hofstatter che fa l’amore con un crocifisso in Paradise: Faith di Urlich Seidl: risate in sala.
2.    Il deejay Bob Sinclar in tenuta party (giacca fucsia e pantaloni neri attillati) che cerca di spiegare ai giornalisti come ha agito nei panni di giurato della sezione Orizzonti: il suo sguardo smarrito confessava un senso di inadeguatezza per la sua presenza al Lido, per la serie “Ma che ci faccio qui?”.
3.    Aver speso 25 euro per uno spritz e un cocktail a un chiosco: il listino prezzi di cibo e bevande al Lido è più volatile dello spread.
4.    Kim Ki-duk che intona un canto della tradizione coreana alla consegna del Leone d’oro: facce sgomente tra il pubblico in Sala Grande.
5.    Le file di giornalisti dormienti durante la proiezione di Linhas de Wellington di Valeria Sarmiento, film che ha fatto registrare il record nel borsino non ufficiale del sonnometro.
6.    Le ragazze in bikini e passamontagna rosa shocking che rapinano la gente in Spring Breakers.
7.    Takeshi Kitano che confessa che il 3D va bene solo per girare film pornografici.
8.    Lo spelling improbabile dei fotografi accreditati in sala stampa che sbagliano ripetutamente i nomi delle star quando inviano le didascalie dei loro scatti alle redazioni dei giornali: “Ma come ‘se chiama quel cinesino?”, “Scrivi ‘k’, poi ‘i’, poi ‘chidoc’, tutto attaccato”, (ovvero Kichidoc, anziché Kim Ki-duk, che non è cinese ma sudcoreano).
9.    Le scene di delirio femminile collettivo per le lolite assassine Selena Gomez e Vanessa Hughes dietro le transenne del red carpet del film di Harmony Korine: mai visto nulla di simile.
10.    Il nude look dell’attrice Romina Mondello in conferenza stampa per To the Wonder di Terrence Malick: ci facciamo sempre riconoscere.

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