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L'ultima ruota del carro - Recensione (Festival di Roma 2013 - Film di apertura)

Giovanni Veronesi apre l’ottava edizione del Festival di Roma 2013 con una commedia dolceamara senza nerbo che intreccia Storia e privato, attraverso le vicissitudini di un uomo semplice alle prese con gli alti e bassi della vita

La commedia all’italiana è morta e sepolta, eppure puntualmente i nostri registi provano a resuscitarla nei modi più disparati e con esiti il più delle volte catastrofici. Uno di quelli che non resiste alla tentazione di cercare di rinverdirne i fasti è Giovanni Veronesi che, dopo i successi al botteghino della trilogia di Manuale d’amore, torna con L’ultima ruota del carro, un film ambizioso che si rifà a quel filone irripetibile del nostro cinema, e che ha avuto l’onere, pardon l’onore, di aprire l’ottava edizione del Festival del Film di Roma (il che non capita spesso, se pensiamo che di solito l’apertura è affidata a tutt’altro genere di pellicole).
Un film ambizioso perché Veronesi compie una di quelle operazioni cinematografiche che potremmo definire azzardate e a forte rischio flop: ovvero condensare in poco meno di due ore di racconto per immagini la storia di un’intera esistenza, quella di un uomo semplice che cerca di costruirsi una vita felice sullo sfondo di un Paese, l’Italia, di cui vengono messi a fuoco i momenti cruciali dagli anni Settanta ad oggi, dall’uccisione di Aldo Moro (che ormai sembra non possa mancare in ogni film italiano ambientato negli anni ’70) all’ascesa del berlusconismo, passando per la vittoria ai Mondiali di Calcio dell’82 (diventati anch’essi un altro momento irrinunciabile per certo nostro cinema ‘nostalgico’) e Tangentopoli.
Non solo: Veronesi tenta di raccontare il tutto come facevano i padri della commedia all’italiana, e cioè mantenendosi in equilibrio tra commedia e dramma, tra la comicità che scaturisce da alcune situazioni e l’amarezza di fondo che accompagna le storie di personaggi per i quali vivere vuol dire anche accettare più dolori che gioie.

Bisogna essere dei grandi narratori e degli abili 'alchimisti' per riuscire a mettere insieme il privato e la Storia con la maiuscola, mescolando risate e lacrime. Veronesi, spiace dirlo, non sembra essere all’altezza di un compito così arduo. Le buone intenzioni non bastano: se escludiamo alcuni momenti divertenti grazie alla bravura soprattutto di Elio Germano, il resto mostra tutti i limiti di una regia e di una sceneggiatura che cercano la battuta facile e che non riescono ad andare oltre il didascalico nei momenti di maggior drammaticità.

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