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Acciaio

immagine-dal-film-acciaioLa pelle liscia di due ragazze. Il sudore nero degli operai. Il suono delle risate infantili e maliziose. Il rumore degli ingranaggi di una catena di montaggio. L’amicizia e il rancore. L’amore e la morte. L’Acciaio

Il secondo lungometraggio di Stefano Mordini, tratto dall'omonimo romanzo di Silvia Avallone, racconta una complicata realtà di provincia. 
Anna (Matilde Giannini) e Francesca (Anna Bellezza) non sono amiche. Non sono amanti. Sono due creature che si appartengono. Si guardano, si mostrano con strafottenza ad un mondo piccolo piccolo, Piombino. La fabbrica da un lato, dall’altro un’isola. A metà il loro capanno lurido e la dolcezza delle carezze in mezzo a dei minuscoli gatti affamati. Fuori la cantilena delle onde del mare e la poesia delle cicale d’agosto. Alessio (Michele Riondino) è un giovane operaio della Lucchini. Lo sguardo stanco e il cuore in ostaggio. Elena (Vittoria Puccini), il suo amore, ha scelto di andare altrove. Lui è rimasto. Lavora, suda e l’ultima persona che vede prima di addormentarsi è sua sorella Anna
Acciaio è un odore, un sussulto, prima di essere narrazione. La storia è offuscata dal fumo vomitato dai camini dell’industria. Anna detiene un punto di vista privilegiato, ma non è l’unica protagonista. C’è la fabbrica, sempre viva. C’è la distanza poi. Quella con la bellezza dell’Isola d’Elba. Quella tra le stanze della stessa casa. Un padre che chiama la figlia puttana, per un filo di rimmel. Una bimba col corpo da donna a cui piacerebbe soltanto, nonostante tutto, andare in vacanza. Tutti insieme. 
L’interpretazione delle due protagoniste esordienti è commovente. Il personaggio di Francesca è un’anima dannata, guarda lo spettatore come fosse in debito con lei, con il suo futuro, con il suo dolore. Anna è una ragazza che spera, che crede ci sia di meglio. Ma sulla riva del mare, col braccio teso a lanciare i sassi in acqua, si chiede, ci chiede, perché le possibilità si debbano sempre cercare altrove. 
Fin dall’inizio sembra che stia per accadere qualcosa di tragico. I personaggi si muovono come se fossero prigionieri di una sventura che li minaccia dall’alto, come la patina che copre il sole. L’unica via di fuga sono Anna e Francesca, quando si ritrovano sulla riva, dall’altra parte, di fronte ai loro fantasmi. Insieme, davanti ad un mare più vasto, molto più vasto, del loro dolore.
La regia è coinvolgente, sporca nelle inquadrature contro un sole opaco, nell’oscurità del gigante del lavoro. Il ritmo zoppica, rallenta, forse troppo, a metà del film, e questo lascia un po’ perplessi. Come se i personaggi fossero messi in pausa dopo essersi esposti ‘spudoratamente’. Sembra che la macchina da presa giri dall’interno dei protagonisti. Non c’è niente di oggettivo, è tutto filtrato da una precisa visione del mondo, quella di Anna, Francesca, Alessio. Quella della Lucchini. 
 
Il film è un'endovena di emozioni trasmesse principalmente per immagini. L'andamento singhiozzante delle storie compromette l'esito finale, lasciando una ferita aperta sui personaggi che non trovano una sintesi ultima. Il rimando a riflessioni generali è certo un'eredità di cui lo spettatore si appropria, ma resta il debito nei confronti di una storia che arranca nel richiudere il suo circolo narrativo. 
 
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