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I bambini di Cold Rock

Una immagine tratta da I bambini di Cold RockMorto un martire se ne fa un altro. Il francese Pascal Laugier, in trasferta americana, sforna un film double face (horror/thriller), con trappoloni strada facendo, cui non bisogna far troppe domande. Non le regge

Pascal Laugier è il regista dell’acclamato Martyrs, film che, tra pretestuose menate misticheggianti e qualche compiacimento, aveva all’attivo due cose ottime: spingeva alla (ri)visione de La Passione di Giovanna d’Arco di Carl Tehodor Dreyer e non dava tregua, né scampo, allo spettatore, costretto a vivere e ad assecondare il supplizio della protagonista. Adesso il nostro è volato in America e ha sfornato I bambini di Cold Rock (in originale The Tall Man, ‘l'uomo alto’, col cappuccio, poi, ancora di più), ma stavolta chi guarda ha vie di fuga a iosa.
Siamo a Cold Rock, un paesello montano quasi fantasma: le miniere sono esaurite, gli abitanti pure (in tutti i sensi), ché il lavoro manca e la miseria dilaga; a ‘sto depresso scenario si aggiunga il fatto che scompaiono i bambini. A frotte. Puff! Svaniti nel nulla, uno via l’altro, senza lasciar traccia. Si vocifera della presenza, quasi leggendaria, di un uomo alto... qualcuno pare l’abbia visto nel bosco. Sul caso c'è un agente dell'FBI. Sì, sì, non una task force come ci si potrebbe immaginare, ma un uomo solo. Però tosto. Ha la faccia tagliata nella roccia che pare la Cosa dei Fantastici Quattro ed entra in azione quando il bambino di Julia, l’infermiera del paesello (un'esangue Jessica Biel), viene rapito dal proprio letto. E con la trama mi fermo qui. Laugier si diletta a stupire lo spettatore. Nella prima parte segue la via piana dei luoghi comuni dell'horror e poi sterza all’improvviso esibendosi in un primo bel testacoda. Ma tal prodezza, essendo teleguidatissima, funziona solo durante la visione del pezzo, ché, passato quello, ci si volta indietro, ci si interroga – stizziti "perché?" cominciano a sfarfallare in testa –  e le cose non tornano più; lo stesso dicasi per la gragnola di 'sorpresone' a seguire. È come se il regista, fascinato da una prospettiva, se ne fregasse di guardare al rigore di quell’altra, irretito dalla propria rete di ribaltoni ad effetto; sembra gli interessino di più i colpi di scena fine a se stessi che la logica che dovrebbe sottendere tutta la storia. La seconda parte vira sul thriller (con manfrina sociologica annessa) e ripropone la figura del martire, un testimone che si caricherà del fardello di mancanze altrui, pubbliche e private, e soffrirà silente per un sacrificio estremo, qui senza alcun senso. Così sull'inutile e reiterato quesito della fine – per non dire del debole e pretestuoso discorsetto sulla tripartizione della 'figura madre’ – che qualcuno pone guardando fisso lo spettatore, e che posso riportare senza timor di spoiler, "Giusto?", vien voglia di scagliare contro lo schermo, a mo’ di risposta, una statua in bronzo a figura intera di (non a caso) Robin Hood.

Pellicola che piacerà tanto a coloro che non si voltano indietro mai. Agli altri molto meno.

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