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Me Too (Venezia 69 - Orizzonti)

Me Too - ImmagineAleksej Balabanov ci regala un'escursione nel sogno e nella libertà creativa, una fuga dal reale melmoso della Russia in decomposizione sociale e politica, verso un campanile magico che trasporta (chi se lo merita) in un'altra dimensione, un altro luogo, verso la felicità. E' la carica rivoluzionaria del sogno quella che palpita nelle immagini di Me Too

Quattro passeggeri, quattro funzioni, quattro cartonati viventi percorrono la strada che dal presente russo fatto di inerzie e occhi chiusi per comodo conduce verso un campanile abbandonato, un luogo magico che ha (si dice) il potere di regalare la felicità a chi vi si presenta e se lo merita; felicità che si raggiunge venendo catapultatati in un altrove fatto chissà di quale materia (forse, di quella di cui son fatti i sogni).
Aleksej Balabanov è un tipo tosto, lo sappiamo bene, un tipo che ha attraversato personalmente le epoche del continente Russia dall'unione sovietica all'era oligarchica targata Eltsin e giù giù fino all'autocrazia morbida (?) dell'attuale epoca Putin, e cinematograficamente ha rappresentato una moltitudine di facciate del suo paese, dalla transizione aristocratico-capitalista del primo Novecento di Of Freaks and Men e Morphine alla violenza degli anni '80 e '90 di Cargo200 e dei Brother, sino alle brutture della guerra in Cecenia di Voyna-War. In poche parole, Balabanov è uno che nella melma storica e politica del proprio paese ha messo le mani senza paura, senza remore, alla ricerca di una poesia del racconto capace di veder spuntare dal letame, i fior. E tuttavia spesso capita anche a chi dentro la realtà ci ha nuotato impavido di stancarsene, di finir per cercare una fuga dal nero pece; anche gli eroi hanno i loro momenti di stanca, e in quei momenti gli eroi sognano. Me Too è proprio questo: la fuga onirica di Balabanov dalla materia che ha abitato il suo cinema. Il Re (Putin) è ormai nudo (e lo è anche letteralmente dopo le vicende italiane del Bunga Bunga e del suo ormai famoso 'lettone' della berlusconiana Villa Certosa), lo sfottono anche tre ragazzine in passamontagna ormai, ma in pochi ci fanno caso, e allora la protesta si trasforma in sogno.
Balabanov cerca la sua libertà e la sua felicità in un viaggio e in una fuga, sulla strada per la quale dissemina qualche segno della decolonizzazione sovietica, come una centrale nucleare abbandonata, cerca persino il divertimento da una realtà che evidentemente pesa come un macigno sia al regista che ai suoi personaggi che scappano e nemmeno loro hanno ben chiaro per dove andare...
Così, non meraviglia che nel film faccia la sua comparsa anche lo stesso Balabanov, nei panni di un regista anche lui alla ricerca del campanile magico, spassosa e tragica parentesi metacinematografica che rende la parte finale di Me Too un gioiello di anarchia narrativa.

Anarchia e libertà che alla fine ci si sente onorati di aver potuto veder rappresentata senza remore, in un momento in cui più d'uno si morde la lingua o si nasconde dietro a storie di realismo e dolore per non parlare del proprio, di dolore. Me Too invece prende il dolore di Balabanov e si incammina alla ricerca della cura, o almeno di una cura possibile. Allo spettatore, giudicare se anche lui ha bisogno di scappare e verso dove, e se davvero è questa una soluzione al nero di questo angolo di storia in cui c'è dato esistere.

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