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Mold (Venezia 69 - Settimana della critica)

Mold - ImmagineMiglior opera prima alla 69esima Mostra di Venezia, Mold racconta una storia di rimozione e flebile speranza, una storia della provincia anatolica in bilico tra un passato di conformismo e repressione e un futuro europeo. Vale la visione anche se è penalizzata nel suo raggiungere il cuore da un ritmo difettoso

Premiato alla 69esima Mostra di Venezia come miglior opera prima tra i film presentati in tutte le sezioni del programma festivaliero, e baciato in fronte di una sponsorizzazione preventiva targata Nanni Moretti che con la sua Sacher ne ha già acquisito i diritti di distribuzione italiana (ragion per cui lo vedremo al cinema durante la stagione che comincia ora, nel post-Venezia), Mold è una piccola e sentita opera di misericordia verso gli sconfitti da un Sistema più grande di loro, declinata con gusto e rigore nel racconto di un personaggio e della sua ricerca del figlio scomparso 18 anni prima. Il protagonista di questa ricerca è Basri (Ercan Kesal), impiegato delle ferrovie in carico del controllo binari nella remota provincia anatolica (che già abbiamo visto nell'ultimo film del maestro turco Nuri Bylge Ceylan, Once Upon a Time in Anatolia, e intendo sia l'attore che la provincia dimenticata), che passa il suo tempo a vagare lungo le vie dei treni che passano con frequenze bizantine e a scrivere ogni due settimane una lettera di richiesta al ministero, perché qualcuno gli dia finalmente notizie del figlio scomparso a Istanbul negli anni '90, durante i disordini che allora portarono non pochi giovani e studenti a fare i conti con una repressione poliziesca della quale poco è noto al di qua del Bosforo. Questo lo porta ad avere guai con la polizia, che altrettanto regolarmente lo convoca e cerca di convincerlo a smetterla di insistere, a non rivangare un passato ormai remoto. Ma per Basri quello è l'unico tempo in cui può vivere, cristallizzato nell'istante dopo il quale non ha avuto più notizie dal figlio, prostrato dalla solitudine dopo la morte della moglie, rinchiuso in un guscio di silenzi e inerzie quotidiane. Il senso di perdita di Basri acuisce tutto il dolore che lo circonda, e così anche due banali parole di scherno di un collega poco simpatico rischiano di farlo finire in un baratro senza ritorno.
A dover fare i conti col proprio passato non è però solo un personaggio dalla storia dolorosa, ma anche (e soprattutto) un paese intero, impegnato a farsi accettare all'interno di una comunità politico-economica come quella europea, ma che pare scegliere la strada della rimozione più che quella della redenzione, per uniformarsi a standard 'occidentali' di convivenza (che poi è quel che raccontava appunto anche Once Upon a Time in Anatolia).

Ali Aydin tratta la materia con mano ferma, idee chiare e l'aiuto di un trio di protagonisti capaci di rendere intense anche le conversazioni più apparentemente banali (oltre a Kesal, ci sono anche Muhammet Uzuner e Tansu Bicer), anche se spesso l'impressione che il difetto di ritmo del racconto ne zavorri la progressione è forte e alcuni inserti onirico-metafisici risultano piazzati senza radici stabili nel tessuto del film.

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