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Provincia meccanica: il ritorno

Una immagine di Stefano Mordini"Credo che in una situazione come quella che oggi stiamo vivendo sia fondamentale l'appartenenza fisica", ci confessa Stefano Mordini in un'intervista per il lancio di Acciaio, la sua seconda fatica dopo Provincia meccanica. Ad accompagnare il regista all'incontro, il cast e la scrittrice Silvia Avallone, autrice del libro da cui il film trae ispirazione

Le luci sono soffuse nel cinema Barberini a Roma in cui, poco prima, era in funzione il proiettore. All’ingresso di Matilde GianniniAnna Bellezza, le due giovanissime attrici esordienti, si alza un applauso spontaneo. La loro interpretazione al fianco di Michele Riondino in Acciaio, l’ultimo lavoro di Stefano Mordini, è notevole. Un film elegantemente crudo, che lascia molto spazio all’interpretazione dello spettatore per alcune situazioni ambigue. Impossibile non parlare di come le storie dei protagonisti plasmati dalla fantasia della scrittrice Silvia Avallone si intreccino con temi più generali, come la ricerca del diverso e la tragicità di certe realtà lavorative (già al centro del precedente lavoro di Mordini, Provincia meccanica), qui rappresentate nella provincia di Piombino. Una striscia di mare separa il grigio della fabbrica dal verde smeraldo delle acque dell’Isola d’Elba. Ma scena dopo scena si scopre che non è soltanto questa la vera differenza.
Dopo la presentazione alla Mostra del Cinema di Venezia nell’ambito delle Giornate degli Autori - Venice Days, il film uscirà il 15 novembre in circa sessanta sale.

 
Come avete lavorato con il passaggio dal libro alla sceneggiatura? A cosa avete rinunciato e cosa avete conservato?
Stefano Mordini: C’è stato un primo confronto sul racconto per individuare la linea narrativa da privilegiare. Abbiamo concordato di dare spazio all’aspetto relativo alle due ragazze. L’altro grande protagonista è la fabbrica che segna il perimetro della storia. È il punto di vista di Anna (Matilde Giannini, ndr.) che mette a fuoco l’intera storia.
Silvia Avallone: Con Stefano l’intesa è stata perfetta, fin dal primo momento. Abbiamo voluto rappresentare due dimensioni, da un lato le due ragazze, dall’altro la fabbrica protagonista quasi quanto le giovani Anna e Francesca. La vera sfida è stata quella di portare la narrazione dal 2001, anno in cui è stato scritto il romanzo, al 2011. Eravamo curiosi di scoprire come il film potesse completare una fase che il libro aveva cominciato.
 
2001-2011. Cosa è cambiato in questi dieci anni?
S.A.: Nel periodo in cui ho scritto il libro non si parlava mai di lavoro. Appena due anni fa, questo era un argomento tabù. C’è stato, quindi, il desiderio di riportare al centro una realtà taciuta. Quella più personale, di come, dalla finestra di casa mia guardavo quell’industria pesante. D’altro canto avevo intenzione di concentrarmi sulla generazione dei nuovi operai, i ragazzi non raccontati. Quando ho raccontato questa industria, si coltivava un sogno rivelatosi, poi, fasullo che ci ha portato dove siamo oggi ma che, allora, funzionava. Le aspettative, adesso, non ci sono più e il film ricalca questa attesa senza speranza. Soprattutto nella figura delle ragazze che chiedono allo spettatore stesso di occuparsene. 
 
Una immagine tratta da AcciaioMordini, il modo in cui la macchina da presa si sofferma sui personaggi è, per certi aspetti, morboso. A volte sembra insinuare un rapporto incestuoso tra i fratelli Anna e Alessio. Questa prospettiva era presente anche nel libro?
S.M.: Non credo ci sia uno sguardo morboso. Sono stato molto attento a mantenere una certa distanza dalle storie che venivano raccontate. Allo spettatore è lasciato lo spazio per vedere quello che vuole vedere. Forse la propria morbosità. Anna è una ragazza alla ricerca di affetto. Credo che in una situazione come quella che oggi stiamo vivendo sia fondamentale l’appartenenza fisica. Ed è questo ciò che cerca Anna.
 
Michele Riondino, ci sono stati problemi particolari durante le scene girate in fabbrica?
Michele Riondino: Entrare in fabbrica è stato un passaggio fondamentale. La Lucchini è stata molto disponibile, dal momento che ci ha permesso di attraversare i cancelli del suo stabilimento e, in un certo senso, intralciare la regolarità del lavoro. È stato importante far parte di quello che dovevamo interpretare per comprenderne il ritmo del film che è cadenzato su quello di una catena di montaggio. Anche quando la macchina da presa è fuori si avverte che il circuito della fabbrica continua ad andare avanti.
 
Da un lato le due giovani che dicono di appartenere ad una generazione perduta, dall’altro gli operai che tengono stretto il proprio lavoro. Sembra che i ragazzi che raccontate si accontentino.
S.M.: Nella realtà di provincia c’è un ‘auto-confinamento’. Andare fuori rappresenta un grande viaggio, anche se questo 'fuori' è l’Isola d’Elba, un posto così vicino. Durante il lavoro di ricerca ho conosciuto un ragazzo ventiduenne che pur dimostrando risentimento verso la fabbrica, verso una realtà troppo stretta, aveva troppa paura per spostarsi. Anna e Francesca vogliono una possibilità per il loro futuro e cercano, nelle piccole ribellioni che vivono, uno stato di appartenenza. Poi, quando attraversano il mare, capiscono che devono creare qualcosa nel loro stesso territorio di appartenenza. Una necessità che possiamo dilatare fino a coinvolgere la nostra realtà a più ampio raggio. Si dovrebbe dare spazio ai propri territori per ritrovare certi valori. 
  
Strefano Mordini, Michele Riondino e Vittoria Puccini alla presentazione di Acciaio alla Mostra di Venezia 2012Come ha trovato Matilde e Anna?
S.M.: Con tanti, tanti provini. Ne ho fatti circa novecento. C’è stato anche un grande lavoro di ricerca, abbiamo fatto tante interviste. Abbiamo lavorato su tutta la Toscana ed è assolutamente casuale che entrambe siano di Piombino. Anna Bellezza l’ho presa subito, grazie ad un provino a scuola. Il suo sguardo nella macchina da presa era straordinario. Loro due, poi, si sono subito riconosciute. 
 

Avallone, uno dei due protagonisti del film è la distanza tra Piombino e l’Isola d’Elba. Una distanza che è anche di tipo culturale. Può raccontarci qualcosa di più su questo aspetto?

S.A.: Io sono partita da un dato reale. Le spiagge dell’Isola d’Elba erano vicinissime a noi, eppure preferivamo continuare ad andare in quella sotto casa e guardare la fila d’auto incolonnate verso l’Isola, in attesa dell’imbarco. Questo è un dato d’esperienza diventato metafora. C’è un confine geografico che è anche barriera psicologica perché da un lato c’è un 'gigante a lavoro', dall’altro c’è un mondo che appartiene ad altri. Il braccio di mare rappresenta la discrasia tra quello che vorremmo fare e quello che la nostra vita è effettivamente.
 


 

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