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Trap Street - Recensione (Venezia 70 - Settimana della Critica)

Le indagini sul mistero di un vicolo non indicato dalle carte stradali e una femme fatale incontrata per caso, portano il giovane ingegnere Li Qiuming dentro un mondo di pericoli sottili e paranoie. L’ossessione per il controllo e la verità inghiottono la libertà che un uomo credeva di avere. Un elegante thriller psico(pato)logico che pecca solo nel finale, per fretta di chiudere e voglia di spiegare e spiegarsi

Quando girando per le strade di una città incontri una via che non è segnata sulle mappe del tuo navigatore satellitare nuovo di zecca, a cosa pensi? Pensi che lo scollamento tra la realtà e la sua rappresentazione è il nido del pericolo, o il luogo del mistero e del fascino che ne deriva? La risposta di Vivian Qu - produttrice indipendente che con questo Shuiyin Jie (Trap Street, il titolo internazionale) firma la prima regia e arriva in concorso alla Settimana della Critica da poco passata in giudicato insieme alla Mostra del Cinema del 2013 – è di quelle tra il paraculo e la saggezza: entrambe le cose.
La risposta alla domanda di cui sopra arriva attraverso la storia di Li Qiuming, giovane ingegnere e apprendista topografo in una ditta di cartografia di Nanjing, che un giorno e per caso si imbatte in una piccola via non ancora mappata sulle carte, Vicolo della Foresta, che bizzarramente sembra resistere alle capacità di rilevamento degli strumenti e degli addetti preposti. Fin qui per Li Qiuming la reazione alla scoperta è un briciolo di curiosità o poco più, ma la cosa cambia e non poco quando il ragazzo incontra una donna che pare lavorare in uno degli edifici affacciati su quella via inesistente: una donna bella e misteriosa, la femme fatale di poche parole che ha fatto la fortuna di tanto cinema noir e la sfortuna di tanti protagonisti maschili di quel cinema. Li Qiuming, ultimo in ordine cronologico di questi personaggi maschili, casca come un pesce lesso dentro il trabocchetto dell’attrazione per il mistero e comincia a cercare un contatto con lei, la donna del vicolo inesistente. E come in ogni noir che si rispetti, le cose potrebbero andare a finire bene (raramente), ma anche piuttosto male (più spesso)…
Il film di Vivian Qu è composto di due parti ben distinte, prima di tutto nei toni: la prima fatta di dipinti destini incrociati che hanno il sapore della gioventù e dell’ingenuità tipica di quell’età, la seconda parte infusa di paranoide degenerazione degli eventi, in progresso da sottile a palese. Le due parti sono incernierate su un preciso avvenimento, che per iscritto e in commento è d'uopo non rivelare, che ribalta le carte sul tavolo e le prospettive dello spettatore e del protagonista osservato.

La costruzione del film è efficace, senza orpelli disturbatori, e mantiene interesse anche nelle scene più banali (un pranzo in una trattoria, una visita allo zoo, una serata in un locale notturno), procede sicura quasi senza far notare che la regista è all'esordio, ma alla fine sbanda. Cercando a tutti i costi il colpo del KO, la chiusa della storia finisce per risultare forzata, forzatamente ambigua per la precisione. Qualcosa di simile era già capitato lo scorso anno per Xiao He – Lotus, anche quello presentato alla Settimana della Critica, anche quello diretto da una giovane regista cinese esordiente: Liu Shu. Coincidenze? Trabocchetti? Il noir è un gioco, si sa.

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