Il carbone della provincia dello Shanxi è la ricchezza e al contempo la meledizione della Cina: miniere sconfinate che regalano quantità enormi di fossile per alimentare le industrie e inquinamento a livelli spaventosi che colora il cielo di grigio e nasconde nuvole e sole.
E' in questo ambiente che Wang Bing posa la sua 'discreta' cinepresa: le miniere a cielo aperto solcate da interminabili file di camion pronte al carico e a lunghi viaggi su strade polverose battute dal vento, trafile burocratiche che consentono ai trasportatori di trasferire il carbone in altre provincie, padroni e padroncini impegnati in faticose e logorroiche contrattazioni, faccendieri senza scrupoli, commercianti che accumulano carbone e lo rivendono, ambienti malsani colorati di nero fuliggine, volti segnati dalla fatica e dalla necessità di portare a casa qualche spicciolo; è la Cina degli scatarri senza sosta, delle cicche buttate sui pavimenti fatti di terra, è una provincia che sente a malapena l'eco della modernità e del benessere, che (forse) maledice i tempi moderni e rimpiange quelli passati in cui c'era poco ma era uguale più o meno per tutti, è una larga parte del paese che fatica a rassegnarsi ad un mondo nuovo che in un baleno ha spazzato via quello vecchio.

Nel seppur breve Coal Money (un'ora di documentario) Wang Bing prosegue nella sua esplorazione di un paese nascosto che sta crollando nelle sue dinamiche sociali e come ha saputo fare con West of the Tracks e Crude Oil lascia una testimonianza di rara importanza che si tramanderà ai posteri come una sorta di 'come eravamo' asettico, privo di valutazioni personali, in cui sono solo le immagini a raccontare una drammatica metamorfosi che prende alla gola la irrisoria cifra di 1 miliardo e passa di persone.

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